L'Aquila. Basilica di Collemaggio. Rosone principale. XIII-XIV secolo

domenica 18 settembre 2011

Il Requiem al Duomo di Pisa


Se quest’estate fatica a cedere il posto all’autunno, puntualmente, invece, torna a Pisa la Rassegna Internazionale di Musica Sacra “Anima Mundi” per la gioia di un pubblico sempre più affezionato, vasto e molto attento. Il La a quest’undicesima edizione ha luogo sabato 17 settembre 2011 nella consueta quanto esclusiva cornice della Primaziale di Pisa i cui protagonisti della serata sono l’Orchestra e il Coro del Maggio Musicale Fiorentino guidati dalla bacchetta di Christopher Hogwood.
Il brano d’apertura è “Ave verum Corpus” K 618, composto da Wolfgang Amadeus Mozart durante l’ultima estate della sua vita nella ridente cittadina termale di Baden bei Wien utilizzando il testo di un tropo del XIII secolo nella versione testuale presente in un manoscritto conservato nell’abbazia di Richenau. Siamo di fronte ad una composizione che come una perla brilla incastonata tra la musica dionisiaca dello sterminato repertorio del genio salisburghese ormai prossimo a congedarsi dalla sua intensissima esistenza terrena: i complessi artistici offrono un’esecuzione sinceramente devota abbracciandosi in un andamento morbido, pacato, come mossi da un amore fraterno: il risultato è quello di una bellezza estatica, un attimo d’infinito di fronte alla quale è davvero molto difficile non lasciarsi trasportare.
Il brano “forte” della serata è lo struggente Requiem K 626, sempre di Mozart: inutile dilungarsi, in questa sede, sulla selva oscura di leggende e dicerie che sono germogliate intorno a questo testamento artistico. Tuttavia, mi permetto solo di nominare il lungimirante saggio “La morte di Mozart” di Piero Buscaroli come uno dei migliori tentativi degl’ultimi anni nell’essere riuscito a garantire una panoramica sulla realtà dei fatti che possa essere tra le più scientificamente corrette nei limiti del possibile filtrandola dalla colorita leggenda che col tempo è nata e si è ingigantita ad opera di Stendhal, Puškin via via fino alla celebre pellicola di Forman.
Leggenda o realtà, tutti convergiamo che questa è una pagina musicale non compiuta e che le integrazioni sono state apportate con un lavoro certosino dai posteri di Mozart fra i quali spicca la figura dell’allievo Franz Xaver Süssmayr: siamo, dunque, a differenza di ciò che si potrebbe pensare, alle prese con uno dei capolavori filologicamente più complessi da interpretare e alla luce di ciò la direzione di colui che viene definito il “Karajan della musica antica”, Christopher Hogwood, è stata assolutamente magistrale.
Un andamento concitato (che ad un orecchio distratto può apparire come frettoloso), un’orchestra marcata e un coro di larghe intese tra le parti hanno garantito, soprattutto in alcuni momenti come quelli del “Rex tremendae maiestatis” quella forte espressività, quell’energica implorazione che una miserabile umanità rivolge in extremis a un Dio giudice. La lettura che il direttore britannico cura di questo Requiem è molto attenta e profondamente studiata se si considera il fatto che si tiene conto, in primo luogo, del contenitore nel quale è inserito, una basilica cristiana la quale architettura ha il pregio (in questo caso) di plasmare il suono con l’armonia dei suoi elementi rendendolo asciutto e pulito, trattenendo sulle sue superfici quelle vibrazioni sonore che l’orecchio continua ad intuire in quegli istanti che immediatamente seguono al momento della loro emissione da parte degli strumenti: è proprio qui, dunque, che a mio avviso risiede l’eccellenza delle scelte di Hogwood (che lui stesso ha tenuto a definirle “barocche”): l’architettura diventa parte integrante delle masse artistiche, essa stessa è vero strumento musicale che con il gioco di echi misurati e mai invadenti riesce a far percepire come “allungate” quelle note che le compagini eseguono in modo che poc’anzi si definiva come concitato.
Ogni brano è eseguito su questa linea, dai più vivaci ed energici quali possono essere quelli del “Confutatis” o del “Sanctus” a quelli più assorti come il “Recordare” oltre a quelli più solenni e mesti con l’“Introitus” o il “Lacrimosa” in luogo del quale la serie in 12/8 di semiminime dei violini secondi e delle viole e di crome dei violini primi in “piano” mirabilmente rendono l’effetto della lacrima trattenuta a stento, mentre il “crescendo” corale alle parole “Judicandus homo reus” guidano un grande pathos alle vette della massima profondità.
Ora protagonista, ora d’accompagnamento, la prova dell’orchestra è sempre alquanto superba: ogni tempo è minuziosamente rispettato, ogni accordo ben intonato senza eccessività di tipo alcuno. Il coro, invece, dà il massimo della sua professionalità principalmente nel fugato del “Kyrie”: non una sbavatura o un’imprecisione, solo tanta professionalità nella quale fondamentale è anche il contributo del lavoro di Piero Monti preparandolo con una professionalità sempre puntuale.
Completano il cast il soprano Roberta Mameli, il mezzosoprano Milena Storti, il tenore Antonio Lozano e il basso Andrea Mastroni nei momenti sia solistici che d’insieme come richiesto dalla partitura.
Il bilancio conclusivo è quello di un ampio successo di pubblico emozionato da una musica che è tra le più belle che ritengo mai essere state udite da orecchio umano: una bellezza esponenzialmente moltiplicata anche dalla mirabile magnificenza del “miracolo” della Cattedrale di Pisa: l’apocalittico “Die irae”, tanto per fare un esempio, certamente non sarebbe stato la stessa cosa se al contempo lo sguardo non si sarebbe inevitabilmente potuto posato sul severo mosaico del Cristo pantocratore che troneggia dal catino absidale in tutta la sua tremendae maiestatis!
Pisa, Cattedrale Primaziale. Il 17 settembre 2011.

sabato 10 settembre 2011

Il cappello di paglia di Firenze per l'Estate fiorentina 2011

Il 15 luglio 2011, presso il Teatro Comunale di Firenze, è andato in scena la prima del vaudeville in quattro atti e due intermezzi “Il cappello di paglia di Firenze”, capolavoro operistico di Nino Rota (suo e della madre Ernesta Rinaldi il libretto; prima rappresentazione assoluta al Teatro Massimo di Palermo il 21 aprile 1955): un autentico bignè musicale ancora troppo screditato da teatri e festival di un po’ tutto il mondo.
Inevitabile imbattersi in momenti di sapore cinematografico (identificando qua è là, inoltre, una serie di motivi ritornanti, segno di una certa attenzione alla lezione wagneriana) in un testo che comunque ha molto di tradizionale nell’impostazione generale della struttura dalla romanza di Fadinard “Tra un’ora sarò sposo” all’immancabile duetto d’amore dal sapore elegiaco tra Fadinard ed Elena “Elena…/ Fadinard!/ Elena! Ora che siamo soli”, fino all’immancabile temporale di rossiniana memoria che “invade” tutta la sala.
Per la prima volta in scena in riva d’Arno in collaborazione con l’Estate Fiorentina 2011, è questa l’occasione per la fondazione toscana, in collaborazione con Opera Voice e Prescott Studio, di sperimentare la nuova applicazione dei “sopratitoli” su iPad, smartphone e tablet attraverso una rete WiFi interna: una lungimirante iniziativa di un teatro che guarda al futuro in cerca di nuovo pubblico, lungimiranza che tuttavia viene a mancare escludendo il titolo da ogni turno di abbonamento con la conseguenza di una sala piena solo a metà (seconda galleria completamente vuota!).
Realizzata grazie al lavoro dell’accademia di Maggio Fiorentino Formazione, la produzione “ 100% made in Florence” vede protagonisti, sia in esposizione nel foyer che direttamente sul palco, autentici cappelli di paglia prodotti dalle aziende consorziate “Il cappello di Firenze” che tengono in vita la storica quanto pregevole manifattura di Signa.
La frizzante regia, firmata da Andrea Cigni, si avvale delle scene e dei costumi di Lorenzo Cutuli, mentre le luci sono curate da Luciano Roticiani: i tre maestri inseriscono l’azione in un tripudio di affiches parigine di fine XIX secolo avendo per base un’enorme cartolina della capitale francese praticabile in alcuni punti.
Divertenti i figuranti speciali protagonisti nei momenti strumentali e molto efficiente la resa del primo intermezzo in tutto il suo complesso (dalla scelta mirata dei costumi, agli spumeggianti atteggiamenti registici) creando un gruppo di gioiose modiste dignitosamente civettuole.
Eccessi di regia, invece, si riscontrano nella scena in casa della baronessa (atto II) con giganti verdure, pietanze e dolci che comunque fanno da ottimo contraltare ad una caricatura d’un disperato amore d’un Fardinard creduto “il celebre Minardi”.
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino guidati, rispettivamente, da Sergio Alaport e da Piero Monti che garantiscono un’interpretazione fresca e scorrevole dell’intera partitura, mentre, per quanto riguarda i singoli cantanti del cast, il discorso si fa decisamente meno eclatante non essendo decisamente all’altezza di un simile capolavoro. Nei limiti della norma Filippo Adami (Fadinard), Francesco Verna (Emilio), Saverio Bambi (Felice; Achille di Rosalba), Leonardo Melani (una guardia), Massimo Egidio Naccarato (un caporale delle guardie), Ladislao Hovárt (Minardi), Andrea Severi (il pianista della baronessa), Anna Maria Sarra (Anaide), Romina Tomasoni (La baronessa di Champigny) e Irene Favro (la modista). Il Vézinet di Roberto Jachini Virgili difetta di una carenza di voce riscontrata soprattutto all’inizio della recita; strumento vocale intubato in Salvatore Salvaggio con i “Tutto a monte!” del suo Nonancourt sempre coperto dalla massa orchestrale; costantemente tremolante Lavinia Bini in Elena; presenza ai limiti del caricaturale il Beaupertuis di Mauro Bonfanti.
È con questo titolo che prima della pausa estiva si concludono le attività artistiche del Maggio Musicale Fiorentino che riprendono nei primissimi giorni di settembre con una serie di tournée in Italia e di concerti sia al Teatro Comunale che presso gli Amici della Musica di Firenze.
Firenze, Teatro Comunale del Maggio Musicale Fiorentino. Il 15 luglio 2011.

Aida al Maggio

Dopo tanto tempo pubblico la mia recensione della produzione di Aida che ha inaugurato il 74° Maggio Musicale Fiorentino e che tanto ha fatto discutere pubblico e critica. Non avendo avuto la possibilità di presenziare all'inaugurazione del 28 aprile, ho assistito alla seconda recita del 3 maggio 2011. Innanzitutto ho potuto constatate che la diretta radio (che ho ascoltato il 28 aprile su Radio3Suite) non rende affatto quello che si sente dal vivo, e poi uno spettacolo non può essere solo ascoltato, ma anche ammirato in quanto l'aspetto visivo fa da reggente a quello uditivo e viceversa.
Innanzitutto vorrei mettere in evidenza che intorno a questa Aida si è sapiente creato la circostanza del "grande evento" ben riuscito grazie a una mole di dirette, incontri e similari come non mai. Si è puntato molto sui grandi nomi, con risultati che hanno piuttosto deluso non pochi melomani, risultando essere una sorta di bolla di sapone. Fatto sta che è stata messa su una grande produzione come non si faceva da tempo; che poi piaccia o meno è altro discorso. Questo è quello che penso io:
I protagonisti:
- Hui He (Aida). L'ottimo fisique-du-role le garantisce un'agiata immedesimazione col personaggio. Di certo la migliore di tutto il cast. Ottimo timbro, voce chiara e adatta al repertorio (anche se lei rimane comunque tra le migliore interpreti di Puccini tanto che di lei si è scritto essere "la migliore Cio-Cio-San che si possa desiderare"). Ottimi i due maggiori numeri "Ritorna vincitor!-Numi pietà" e "Qui Radames verrà!-Oh Patria mia", ottima la resa scenica, insomma, molto brava! (In diretta radio non andava a tempo in "Numi pietà" e si sentiva una difficoltà nel registro basso).
- Marco Berti (Radames). Voce tenorile potente e squillante da riempire a dovere la vasta sala del Comunale dalla scarsissima qualità acustica. Quello che si era sentito per radio era da pomodori, ieri sera, invece, prestazione più che soddisfacente. Ma sia ben chiaro che molte, troppo volte, era in evidente difficoltà, con sbavature che facevano davvero male all'orecchio fatte di palesi steccate, cali di voce clamorosi e fraseggio spesso confuso e alquanto incomprensibile tanto da dover ricorrere alla lettura dei sopratitoli. Male in "Se quel guerrier io fossi", bene in "Celeste Aida", sapientemente superata la prova del finale del terzo atto "Sacerdote, io resto a te". Finalmente al Maggio tornano buoni tenori protagonisti, dopo una serie di scarsi che si stava iniziando a fare abbastanza lunga.
- Luciana D'Intino (Amneris). Il suo è un timbro vocale di una bellezza monumentale, caldo, solenne, pieno, ma che tuttavia è in palese calo qualitativo per normali cause che il tempo provoca su ognuno di noi col suo scorrere. Decisamente male l'entrata al primo atto "Quale insolita gioia" tutto nasale; discreta per tutto il resto della recita, ma si tenga sempre ben presente che l'usura della voce era continuamente manifesta con cali allucinanti tanto da non reggere il peso della massa orchestrale facendo necessitare a Mehta di riprendere l'orchestra chiedendone un "leggermente più piano" in cerca di un volume più “morbido” proprio per non sopraffare più di tanto la voce della D'Intino che più di tanto non riusciva a rendere. I cedimenti, dunque, sono palesi e al quarto atto l'affaticamento era diventato davvero insostenibile, costantemente traballante e a tratti imbarazzante, ma lei ha saputo reggere la fatica con una professionalità che reputerei alquanto straordinaria tanto da superare con moltissimo garbo tutta quella potenza che richiede la prima scena dell'atto IV. Nel complesso le difficoltà maggiori si sono sentite soprattutto nel registro alto e nel saper gestire al meglio quelle che di fatto sono le due voci che lei ha (tane ne ho individuate; Enrico Stinchelli, invece, tre), ma resta il fatto che possiede uno dei timbri mezzosopranili più affascinanti ancora disponibili sulla piazza e sono sicuro che se l'avremmo ascoltata qualche anno fa avremmo assistito ad una Amneris assolutamente magistrale. Nonostante i limiti bisogna comunque sottolineare che lei è stata quella che più di tutti ha saputo creare un personaggio solenne e molto fragile nella sua interiorità, fragilità che si mostra in eccessi di potere, alterigia, avarizia e in raffinata astuzia. (atto II). E proprio l’ambiguità della sua prestazione (fragile), le permette di immedesimarsi (involontariamente, si badi) col suo personaggio (idem fragile). Aggiungo, per terminare, in “Ohime! Morir mi sento Oh! Chi lo salva (…) e il lutto eterno del mio cor segnasti!”, dal punto di vista drammaturgico è stata assolutamente strepitosa, chissà se si sia avvalsa del “Magico se” Stanislavskijano, ma in questo ha dimostrato una recitazione impeccabile.
- Ambrogio Maestri (Amonastro). Voce piena, calda, ben intonata e ottimo controllo anche nelle parti drammaturgicamente più forti. In radio l’atto III pareva una verista "Cavalleria rusticana".
- Roberto Tavaglini (Il re). Ottimo basso, peccato che il capolavoro richieda poco interventi, interessanti sarebbe stato sentire qualche suo virtuosismo.
- Giacomo Prestia (Ramfis). Voce di basso eclatante. Potente, solenne, imponente, insomma, quella voce che è proprio adatta ad un ruolo di tremenda maestà come quello del capo dei sacerdoti che "di sangue son paghi giammai e si chiaman ministri del ciel".
- Saverio Forte (Il messaggero) e Caterina di Tonno (Una sacerdotessa). Ottime voci, ma ancora peccato il loro minimo impegno richiesto in quest'opera. Entrambi comunque bravi; poco, ma bene.
- Orchestra e Coro come sempre in gran forma, bene il lavoro di Piero Monti e bella quanto interessante la lettura di Zubin Mehta, oltre alla non indifferente direzione. Solo due punti che mi hanno lasciato un pò perplesso: il Preludio e il tremolio degli archi all'apertura dell’atto III. In entrambi i casi c'è stato un mio personale calo d'entusiasmo non da poco in quanto ho notato che qui Mehta ha scelto di far fare ai professori dell’orchestra particolarmente pressione sulle corde degli archi col risultato di tremolii molto marcati, netti, spezzati e quello che ne è risultato mi ha fatto un pò storcere il naso, soprattutto per l'apertura dell'atto III che in radio davvero pareva la colonna sonora di "Profondo rosso" di Dario Argento.
Mentre, per quando riguarda sia orchestra che coro, ma soprattutto il coro, quello che più ho avuto modo di apprezzare è il fatto che Mehta ha rinunciato al frastuono tipico del grand-opera (ai tempi di Verdi questo genere era anche chiamato "opera rumorosa" e questo la dice lunga) al fine di creare sonorità più contenute e sfumate risultando, così, più solenni e dignitose. Il coro, soprattutto, non era così imponente come siamo abituati a sentire in molti cd, dirette e teatri (e Terme e Arene) e questo ha creato un bellissimo suono particolarmente arioso, trascinante come una pennellata, che per l'orecchio era di una gradevolezza alquanto deliziosa. D'altronde "Aida" è da moltissimi definita "un'opera da camera" (questo il titolo del contributo di Philip Gosset sul programma di sala; pagg. 66-75) e questa affermazione non è certo casuale, ma è un'altro discorso; posso comunque assicurare che in radio questo non si sentiva affatto, proprio per niente: sono queste le sfumature che se uno vuole captare deve essere obbligatoriamente presente in sala.
Regia, scene, costumi, coreografia, luci:
Questo è l'aspetto che più ha deluso gran parte della critica e quasi tutti i miei amici melomani e a causa del quale si sono accese delle vivaci discussioni. Ricordo la vivace querelle che si accese per la "Carmen" scaligera del 2009 la cui regia era firmata da Emma Dante (anche lei al debutto operistico come il “nostro” Ozpeteck seguendo una linea di sperimentazioni di regie di cineasti per produzioni liriche che hanno caratterizzato questo festival fin dalle origini). Una regia all'avanguardia (quella di “Carmen”), ma che certo non ha stravolto il libretto, anche se bisogna ammettere che certi eccessi di regia c'erano ed erano anche di una scarsità non indifferente (come eccessi di regia si sono visti anche nella frizzante “La serva padrona” pergolesiana firmata da Curro Carreras che è andata in scena al Teatro Goldoni di Firenze nel febbraio 2011). Una situazione simile situazione abbiamo, secondo me, con questa nostra Aida fiorentina: un'Aida rispettosa della tradizione e del libretto e che rinuncia a tutti quei fronzoli pomposi (e spesso kitsch) in stile kolossal zeffirelliano: ad allestimenti del genere ci siamo particolarmente viziati un po’ tutti, ammettiamolo (a febbraio 2012 al Teatro alla Scala di Milano torna lo storico allestimento di Zeffirelli del 1963). Abbiamo assistito, stavolta, a una personale lettura di Ozpeteck molto profonda e personale quanto in ottima sintonia con ciò che voleva Verdi. Tutto è ambientato in un Egitto già decaduto, già sprofondato nella tomba della sabbia, ergo nell’oblio, la vera morte secondo il pensiero foscoliano (un Egitto che tuttavia sta tornando in luce e spia di ciò sono quei due archeologi intenti in una campagna di scavo che vediamo sullo sfondo nell’atto I). Così come l'Egitto, anche i personaggi sono già decaduti, già vinti in partenza e in questo (anche questo), forse, ci può spiegare la regia statica, a tratti inesistente: una regia quasi da oratorio (osservazione, questa della condizione d'oratorio della regia, che ho avuto modo di leggere da qualche parte che ora non rammento e che mi ha colpito per come viene ben resa con una sola parola il complesso delle scelte registiche). Pochi movimenti, ma essenziali, asciutti, quasi brechtiani. Le scenografie non mi hanno affatto deluso, fondendo Egitto e Turchia (Patria di Ozpeteck): così la cultura egizia “ha fatto sua” il bagno turco all’apertura del secondo atto e nel deserto della Terra dei Faraoni trovano felice albergo quelle catartiche teste colossali delle rovine dell’antica città dell’Asia Minore di Nemrut. Spunti personali che dunque non stravolgono la cultura egizia, ma sono motivo di armoniosa integrazione per entrambe le culture. Nella musicalmente fin troppo celebre marcia trionfale e nei ballabili dell’atto II, la trovata di inserire la figura di una fanciulla "sola, perduta, abbandonata", sfigurata e morente, immagine degli orrori della guerra e la battaglia in stile flashback (e qua emerge l’impronta del regista cinematografico) è stata davvero buona, instaurando, tra l'altro, un rapporto di causa-effetto all'inverso. Interessanti anche le scelte degli altri momenti di danza dell’atto I e all'inizio dell’atto II testimoniando il buon lavoro portato avanti da Francesco Ventriglia e da MaggioDanza.
La fine della scena I dell’atto IV (tenuta al buio) con l'immagine della perdente Amneris (vestita in nero e solo lei in luce) che si piomba disperata su una statua ha creato un effetto davvero suggestivo, testimone dell'alto lavoro portato avanti da Maurizio Calvesi per le luci, senza il contributo del quale, questa sarebbe stata una produzione tutta diversa. L'ultima scena, quella della morte di Radames e Aida nella tomba, inghiottiti dalla sabbia, secondo me non ha reso, invece, al meglio quello che si voleva esprimere col risultato che la sabbia sembrava uno sciacquone e il suo rumore, per di più, interferiva con il suono dell'orchestra; peccato che non si sia pienamente raggiunto il risultato sperato anche perchè questa trovata è comunque molto efficace e mi piace assai. I costumi di Alessandro Lai erano nella norma con un'Aida in blu cobalto all’terzo III come se ne sono viste anche fin troppe volte, mentre i costumi dei guerrieri della battaglia dei ballabili all’atto II, con tanto di parrucche rasta alquanto ambigui, ne facevano quasi un pezzo di break dance (ma di rasta simili se ne sono visti anche in altri punti creando qualche perplessità).
Firenze, Teatro Comunale del Maggio Musicale Fiorentino. Il 3 maggio 2011.