L'Aquila. Basilica di Collemaggio. Rosone principale. XIII-XIV secolo

domenica 18 settembre 2011

Il Requiem al Duomo di Pisa


Se quest’estate fatica a cedere il posto all’autunno, puntualmente, invece, torna a Pisa la Rassegna Internazionale di Musica Sacra “Anima Mundi” per la gioia di un pubblico sempre più affezionato, vasto e molto attento. Il La a quest’undicesima edizione ha luogo sabato 17 settembre 2011 nella consueta quanto esclusiva cornice della Primaziale di Pisa i cui protagonisti della serata sono l’Orchestra e il Coro del Maggio Musicale Fiorentino guidati dalla bacchetta di Christopher Hogwood.
Il brano d’apertura è “Ave verum Corpus” K 618, composto da Wolfgang Amadeus Mozart durante l’ultima estate della sua vita nella ridente cittadina termale di Baden bei Wien utilizzando il testo di un tropo del XIII secolo nella versione testuale presente in un manoscritto conservato nell’abbazia di Richenau. Siamo di fronte ad una composizione che come una perla brilla incastonata tra la musica dionisiaca dello sterminato repertorio del genio salisburghese ormai prossimo a congedarsi dalla sua intensissima esistenza terrena: i complessi artistici offrono un’esecuzione sinceramente devota abbracciandosi in un andamento morbido, pacato, come mossi da un amore fraterno: il risultato è quello di una bellezza estatica, un attimo d’infinito di fronte alla quale è davvero molto difficile non lasciarsi trasportare.
Il brano “forte” della serata è lo struggente Requiem K 626, sempre di Mozart: inutile dilungarsi, in questa sede, sulla selva oscura di leggende e dicerie che sono germogliate intorno a questo testamento artistico. Tuttavia, mi permetto solo di nominare il lungimirante saggio “La morte di Mozart” di Piero Buscaroli come uno dei migliori tentativi degl’ultimi anni nell’essere riuscito a garantire una panoramica sulla realtà dei fatti che possa essere tra le più scientificamente corrette nei limiti del possibile filtrandola dalla colorita leggenda che col tempo è nata e si è ingigantita ad opera di Stendhal, Puškin via via fino alla celebre pellicola di Forman.
Leggenda o realtà, tutti convergiamo che questa è una pagina musicale non compiuta e che le integrazioni sono state apportate con un lavoro certosino dai posteri di Mozart fra i quali spicca la figura dell’allievo Franz Xaver Süssmayr: siamo, dunque, a differenza di ciò che si potrebbe pensare, alle prese con uno dei capolavori filologicamente più complessi da interpretare e alla luce di ciò la direzione di colui che viene definito il “Karajan della musica antica”, Christopher Hogwood, è stata assolutamente magistrale.
Un andamento concitato (che ad un orecchio distratto può apparire come frettoloso), un’orchestra marcata e un coro di larghe intese tra le parti hanno garantito, soprattutto in alcuni momenti come quelli del “Rex tremendae maiestatis” quella forte espressività, quell’energica implorazione che una miserabile umanità rivolge in extremis a un Dio giudice. La lettura che il direttore britannico cura di questo Requiem è molto attenta e profondamente studiata se si considera il fatto che si tiene conto, in primo luogo, del contenitore nel quale è inserito, una basilica cristiana la quale architettura ha il pregio (in questo caso) di plasmare il suono con l’armonia dei suoi elementi rendendolo asciutto e pulito, trattenendo sulle sue superfici quelle vibrazioni sonore che l’orecchio continua ad intuire in quegli istanti che immediatamente seguono al momento della loro emissione da parte degli strumenti: è proprio qui, dunque, che a mio avviso risiede l’eccellenza delle scelte di Hogwood (che lui stesso ha tenuto a definirle “barocche”): l’architettura diventa parte integrante delle masse artistiche, essa stessa è vero strumento musicale che con il gioco di echi misurati e mai invadenti riesce a far percepire come “allungate” quelle note che le compagini eseguono in modo che poc’anzi si definiva come concitato.
Ogni brano è eseguito su questa linea, dai più vivaci ed energici quali possono essere quelli del “Confutatis” o del “Sanctus” a quelli più assorti come il “Recordare” oltre a quelli più solenni e mesti con l’“Introitus” o il “Lacrimosa” in luogo del quale la serie in 12/8 di semiminime dei violini secondi e delle viole e di crome dei violini primi in “piano” mirabilmente rendono l’effetto della lacrima trattenuta a stento, mentre il “crescendo” corale alle parole “Judicandus homo reus” guidano un grande pathos alle vette della massima profondità.
Ora protagonista, ora d’accompagnamento, la prova dell’orchestra è sempre alquanto superba: ogni tempo è minuziosamente rispettato, ogni accordo ben intonato senza eccessività di tipo alcuno. Il coro, invece, dà il massimo della sua professionalità principalmente nel fugato del “Kyrie”: non una sbavatura o un’imprecisione, solo tanta professionalità nella quale fondamentale è anche il contributo del lavoro di Piero Monti preparandolo con una professionalità sempre puntuale.
Completano il cast il soprano Roberta Mameli, il mezzosoprano Milena Storti, il tenore Antonio Lozano e il basso Andrea Mastroni nei momenti sia solistici che d’insieme come richiesto dalla partitura.
Il bilancio conclusivo è quello di un ampio successo di pubblico emozionato da una musica che è tra le più belle che ritengo mai essere state udite da orecchio umano: una bellezza esponenzialmente moltiplicata anche dalla mirabile magnificenza del “miracolo” della Cattedrale di Pisa: l’apocalittico “Die irae”, tanto per fare un esempio, certamente non sarebbe stato la stessa cosa se al contempo lo sguardo non si sarebbe inevitabilmente potuto posato sul severo mosaico del Cristo pantocratore che troneggia dal catino absidale in tutta la sua tremendae maiestatis!
Pisa, Cattedrale Primaziale. Il 17 settembre 2011.

sabato 10 settembre 2011

Il cappello di paglia di Firenze per l'Estate fiorentina 2011

Il 15 luglio 2011, presso il Teatro Comunale di Firenze, è andato in scena la prima del vaudeville in quattro atti e due intermezzi “Il cappello di paglia di Firenze”, capolavoro operistico di Nino Rota (suo e della madre Ernesta Rinaldi il libretto; prima rappresentazione assoluta al Teatro Massimo di Palermo il 21 aprile 1955): un autentico bignè musicale ancora troppo screditato da teatri e festival di un po’ tutto il mondo.
Inevitabile imbattersi in momenti di sapore cinematografico (identificando qua è là, inoltre, una serie di motivi ritornanti, segno di una certa attenzione alla lezione wagneriana) in un testo che comunque ha molto di tradizionale nell’impostazione generale della struttura dalla romanza di Fadinard “Tra un’ora sarò sposo” all’immancabile duetto d’amore dal sapore elegiaco tra Fadinard ed Elena “Elena…/ Fadinard!/ Elena! Ora che siamo soli”, fino all’immancabile temporale di rossiniana memoria che “invade” tutta la sala.
Per la prima volta in scena in riva d’Arno in collaborazione con l’Estate Fiorentina 2011, è questa l’occasione per la fondazione toscana, in collaborazione con Opera Voice e Prescott Studio, di sperimentare la nuova applicazione dei “sopratitoli” su iPad, smartphone e tablet attraverso una rete WiFi interna: una lungimirante iniziativa di un teatro che guarda al futuro in cerca di nuovo pubblico, lungimiranza che tuttavia viene a mancare escludendo il titolo da ogni turno di abbonamento con la conseguenza di una sala piena solo a metà (seconda galleria completamente vuota!).
Realizzata grazie al lavoro dell’accademia di Maggio Fiorentino Formazione, la produzione “ 100% made in Florence” vede protagonisti, sia in esposizione nel foyer che direttamente sul palco, autentici cappelli di paglia prodotti dalle aziende consorziate “Il cappello di Firenze” che tengono in vita la storica quanto pregevole manifattura di Signa.
La frizzante regia, firmata da Andrea Cigni, si avvale delle scene e dei costumi di Lorenzo Cutuli, mentre le luci sono curate da Luciano Roticiani: i tre maestri inseriscono l’azione in un tripudio di affiches parigine di fine XIX secolo avendo per base un’enorme cartolina della capitale francese praticabile in alcuni punti.
Divertenti i figuranti speciali protagonisti nei momenti strumentali e molto efficiente la resa del primo intermezzo in tutto il suo complesso (dalla scelta mirata dei costumi, agli spumeggianti atteggiamenti registici) creando un gruppo di gioiose modiste dignitosamente civettuole.
Eccessi di regia, invece, si riscontrano nella scena in casa della baronessa (atto II) con giganti verdure, pietanze e dolci che comunque fanno da ottimo contraltare ad una caricatura d’un disperato amore d’un Fardinard creduto “il celebre Minardi”.
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino guidati, rispettivamente, da Sergio Alaport e da Piero Monti che garantiscono un’interpretazione fresca e scorrevole dell’intera partitura, mentre, per quanto riguarda i singoli cantanti del cast, il discorso si fa decisamente meno eclatante non essendo decisamente all’altezza di un simile capolavoro. Nei limiti della norma Filippo Adami (Fadinard), Francesco Verna (Emilio), Saverio Bambi (Felice; Achille di Rosalba), Leonardo Melani (una guardia), Massimo Egidio Naccarato (un caporale delle guardie), Ladislao Hovárt (Minardi), Andrea Severi (il pianista della baronessa), Anna Maria Sarra (Anaide), Romina Tomasoni (La baronessa di Champigny) e Irene Favro (la modista). Il Vézinet di Roberto Jachini Virgili difetta di una carenza di voce riscontrata soprattutto all’inizio della recita; strumento vocale intubato in Salvatore Salvaggio con i “Tutto a monte!” del suo Nonancourt sempre coperto dalla massa orchestrale; costantemente tremolante Lavinia Bini in Elena; presenza ai limiti del caricaturale il Beaupertuis di Mauro Bonfanti.
È con questo titolo che prima della pausa estiva si concludono le attività artistiche del Maggio Musicale Fiorentino che riprendono nei primissimi giorni di settembre con una serie di tournée in Italia e di concerti sia al Teatro Comunale che presso gli Amici della Musica di Firenze.
Firenze, Teatro Comunale del Maggio Musicale Fiorentino. Il 15 luglio 2011.

Aida al Maggio

Dopo tanto tempo pubblico la mia recensione della produzione di Aida che ha inaugurato il 74° Maggio Musicale Fiorentino e che tanto ha fatto discutere pubblico e critica. Non avendo avuto la possibilità di presenziare all'inaugurazione del 28 aprile, ho assistito alla seconda recita del 3 maggio 2011. Innanzitutto ho potuto constatate che la diretta radio (che ho ascoltato il 28 aprile su Radio3Suite) non rende affatto quello che si sente dal vivo, e poi uno spettacolo non può essere solo ascoltato, ma anche ammirato in quanto l'aspetto visivo fa da reggente a quello uditivo e viceversa.
Innanzitutto vorrei mettere in evidenza che intorno a questa Aida si è sapiente creato la circostanza del "grande evento" ben riuscito grazie a una mole di dirette, incontri e similari come non mai. Si è puntato molto sui grandi nomi, con risultati che hanno piuttosto deluso non pochi melomani, risultando essere una sorta di bolla di sapone. Fatto sta che è stata messa su una grande produzione come non si faceva da tempo; che poi piaccia o meno è altro discorso. Questo è quello che penso io:
I protagonisti:
- Hui He (Aida). L'ottimo fisique-du-role le garantisce un'agiata immedesimazione col personaggio. Di certo la migliore di tutto il cast. Ottimo timbro, voce chiara e adatta al repertorio (anche se lei rimane comunque tra le migliore interpreti di Puccini tanto che di lei si è scritto essere "la migliore Cio-Cio-San che si possa desiderare"). Ottimi i due maggiori numeri "Ritorna vincitor!-Numi pietà" e "Qui Radames verrà!-Oh Patria mia", ottima la resa scenica, insomma, molto brava! (In diretta radio non andava a tempo in "Numi pietà" e si sentiva una difficoltà nel registro basso).
- Marco Berti (Radames). Voce tenorile potente e squillante da riempire a dovere la vasta sala del Comunale dalla scarsissima qualità acustica. Quello che si era sentito per radio era da pomodori, ieri sera, invece, prestazione più che soddisfacente. Ma sia ben chiaro che molte, troppo volte, era in evidente difficoltà, con sbavature che facevano davvero male all'orecchio fatte di palesi steccate, cali di voce clamorosi e fraseggio spesso confuso e alquanto incomprensibile tanto da dover ricorrere alla lettura dei sopratitoli. Male in "Se quel guerrier io fossi", bene in "Celeste Aida", sapientemente superata la prova del finale del terzo atto "Sacerdote, io resto a te". Finalmente al Maggio tornano buoni tenori protagonisti, dopo una serie di scarsi che si stava iniziando a fare abbastanza lunga.
- Luciana D'Intino (Amneris). Il suo è un timbro vocale di una bellezza monumentale, caldo, solenne, pieno, ma che tuttavia è in palese calo qualitativo per normali cause che il tempo provoca su ognuno di noi col suo scorrere. Decisamente male l'entrata al primo atto "Quale insolita gioia" tutto nasale; discreta per tutto il resto della recita, ma si tenga sempre ben presente che l'usura della voce era continuamente manifesta con cali allucinanti tanto da non reggere il peso della massa orchestrale facendo necessitare a Mehta di riprendere l'orchestra chiedendone un "leggermente più piano" in cerca di un volume più “morbido” proprio per non sopraffare più di tanto la voce della D'Intino che più di tanto non riusciva a rendere. I cedimenti, dunque, sono palesi e al quarto atto l'affaticamento era diventato davvero insostenibile, costantemente traballante e a tratti imbarazzante, ma lei ha saputo reggere la fatica con una professionalità che reputerei alquanto straordinaria tanto da superare con moltissimo garbo tutta quella potenza che richiede la prima scena dell'atto IV. Nel complesso le difficoltà maggiori si sono sentite soprattutto nel registro alto e nel saper gestire al meglio quelle che di fatto sono le due voci che lei ha (tane ne ho individuate; Enrico Stinchelli, invece, tre), ma resta il fatto che possiede uno dei timbri mezzosopranili più affascinanti ancora disponibili sulla piazza e sono sicuro che se l'avremmo ascoltata qualche anno fa avremmo assistito ad una Amneris assolutamente magistrale. Nonostante i limiti bisogna comunque sottolineare che lei è stata quella che più di tutti ha saputo creare un personaggio solenne e molto fragile nella sua interiorità, fragilità che si mostra in eccessi di potere, alterigia, avarizia e in raffinata astuzia. (atto II). E proprio l’ambiguità della sua prestazione (fragile), le permette di immedesimarsi (involontariamente, si badi) col suo personaggio (idem fragile). Aggiungo, per terminare, in “Ohime! Morir mi sento Oh! Chi lo salva (…) e il lutto eterno del mio cor segnasti!”, dal punto di vista drammaturgico è stata assolutamente strepitosa, chissà se si sia avvalsa del “Magico se” Stanislavskijano, ma in questo ha dimostrato una recitazione impeccabile.
- Ambrogio Maestri (Amonastro). Voce piena, calda, ben intonata e ottimo controllo anche nelle parti drammaturgicamente più forti. In radio l’atto III pareva una verista "Cavalleria rusticana".
- Roberto Tavaglini (Il re). Ottimo basso, peccato che il capolavoro richieda poco interventi, interessanti sarebbe stato sentire qualche suo virtuosismo.
- Giacomo Prestia (Ramfis). Voce di basso eclatante. Potente, solenne, imponente, insomma, quella voce che è proprio adatta ad un ruolo di tremenda maestà come quello del capo dei sacerdoti che "di sangue son paghi giammai e si chiaman ministri del ciel".
- Saverio Forte (Il messaggero) e Caterina di Tonno (Una sacerdotessa). Ottime voci, ma ancora peccato il loro minimo impegno richiesto in quest'opera. Entrambi comunque bravi; poco, ma bene.
- Orchestra e Coro come sempre in gran forma, bene il lavoro di Piero Monti e bella quanto interessante la lettura di Zubin Mehta, oltre alla non indifferente direzione. Solo due punti che mi hanno lasciato un pò perplesso: il Preludio e il tremolio degli archi all'apertura dell’atto III. In entrambi i casi c'è stato un mio personale calo d'entusiasmo non da poco in quanto ho notato che qui Mehta ha scelto di far fare ai professori dell’orchestra particolarmente pressione sulle corde degli archi col risultato di tremolii molto marcati, netti, spezzati e quello che ne è risultato mi ha fatto un pò storcere il naso, soprattutto per l'apertura dell'atto III che in radio davvero pareva la colonna sonora di "Profondo rosso" di Dario Argento.
Mentre, per quando riguarda sia orchestra che coro, ma soprattutto il coro, quello che più ho avuto modo di apprezzare è il fatto che Mehta ha rinunciato al frastuono tipico del grand-opera (ai tempi di Verdi questo genere era anche chiamato "opera rumorosa" e questo la dice lunga) al fine di creare sonorità più contenute e sfumate risultando, così, più solenni e dignitose. Il coro, soprattutto, non era così imponente come siamo abituati a sentire in molti cd, dirette e teatri (e Terme e Arene) e questo ha creato un bellissimo suono particolarmente arioso, trascinante come una pennellata, che per l'orecchio era di una gradevolezza alquanto deliziosa. D'altronde "Aida" è da moltissimi definita "un'opera da camera" (questo il titolo del contributo di Philip Gosset sul programma di sala; pagg. 66-75) e questa affermazione non è certo casuale, ma è un'altro discorso; posso comunque assicurare che in radio questo non si sentiva affatto, proprio per niente: sono queste le sfumature che se uno vuole captare deve essere obbligatoriamente presente in sala.
Regia, scene, costumi, coreografia, luci:
Questo è l'aspetto che più ha deluso gran parte della critica e quasi tutti i miei amici melomani e a causa del quale si sono accese delle vivaci discussioni. Ricordo la vivace querelle che si accese per la "Carmen" scaligera del 2009 la cui regia era firmata da Emma Dante (anche lei al debutto operistico come il “nostro” Ozpeteck seguendo una linea di sperimentazioni di regie di cineasti per produzioni liriche che hanno caratterizzato questo festival fin dalle origini). Una regia all'avanguardia (quella di “Carmen”), ma che certo non ha stravolto il libretto, anche se bisogna ammettere che certi eccessi di regia c'erano ed erano anche di una scarsità non indifferente (come eccessi di regia si sono visti anche nella frizzante “La serva padrona” pergolesiana firmata da Curro Carreras che è andata in scena al Teatro Goldoni di Firenze nel febbraio 2011). Una situazione simile situazione abbiamo, secondo me, con questa nostra Aida fiorentina: un'Aida rispettosa della tradizione e del libretto e che rinuncia a tutti quei fronzoli pomposi (e spesso kitsch) in stile kolossal zeffirelliano: ad allestimenti del genere ci siamo particolarmente viziati un po’ tutti, ammettiamolo (a febbraio 2012 al Teatro alla Scala di Milano torna lo storico allestimento di Zeffirelli del 1963). Abbiamo assistito, stavolta, a una personale lettura di Ozpeteck molto profonda e personale quanto in ottima sintonia con ciò che voleva Verdi. Tutto è ambientato in un Egitto già decaduto, già sprofondato nella tomba della sabbia, ergo nell’oblio, la vera morte secondo il pensiero foscoliano (un Egitto che tuttavia sta tornando in luce e spia di ciò sono quei due archeologi intenti in una campagna di scavo che vediamo sullo sfondo nell’atto I). Così come l'Egitto, anche i personaggi sono già decaduti, già vinti in partenza e in questo (anche questo), forse, ci può spiegare la regia statica, a tratti inesistente: una regia quasi da oratorio (osservazione, questa della condizione d'oratorio della regia, che ho avuto modo di leggere da qualche parte che ora non rammento e che mi ha colpito per come viene ben resa con una sola parola il complesso delle scelte registiche). Pochi movimenti, ma essenziali, asciutti, quasi brechtiani. Le scenografie non mi hanno affatto deluso, fondendo Egitto e Turchia (Patria di Ozpeteck): così la cultura egizia “ha fatto sua” il bagno turco all’apertura del secondo atto e nel deserto della Terra dei Faraoni trovano felice albergo quelle catartiche teste colossali delle rovine dell’antica città dell’Asia Minore di Nemrut. Spunti personali che dunque non stravolgono la cultura egizia, ma sono motivo di armoniosa integrazione per entrambe le culture. Nella musicalmente fin troppo celebre marcia trionfale e nei ballabili dell’atto II, la trovata di inserire la figura di una fanciulla "sola, perduta, abbandonata", sfigurata e morente, immagine degli orrori della guerra e la battaglia in stile flashback (e qua emerge l’impronta del regista cinematografico) è stata davvero buona, instaurando, tra l'altro, un rapporto di causa-effetto all'inverso. Interessanti anche le scelte degli altri momenti di danza dell’atto I e all'inizio dell’atto II testimoniando il buon lavoro portato avanti da Francesco Ventriglia e da MaggioDanza.
La fine della scena I dell’atto IV (tenuta al buio) con l'immagine della perdente Amneris (vestita in nero e solo lei in luce) che si piomba disperata su una statua ha creato un effetto davvero suggestivo, testimone dell'alto lavoro portato avanti da Maurizio Calvesi per le luci, senza il contributo del quale, questa sarebbe stata una produzione tutta diversa. L'ultima scena, quella della morte di Radames e Aida nella tomba, inghiottiti dalla sabbia, secondo me non ha reso, invece, al meglio quello che si voleva esprimere col risultato che la sabbia sembrava uno sciacquone e il suo rumore, per di più, interferiva con il suono dell'orchestra; peccato che non si sia pienamente raggiunto il risultato sperato anche perchè questa trovata è comunque molto efficace e mi piace assai. I costumi di Alessandro Lai erano nella norma con un'Aida in blu cobalto all’terzo III come se ne sono viste anche fin troppe volte, mentre i costumi dei guerrieri della battaglia dei ballabili all’atto II, con tanto di parrucche rasta alquanto ambigui, ne facevano quasi un pezzo di break dance (ma di rasta simili se ne sono visti anche in altri punti creando qualche perplessità).
Firenze, Teatro Comunale del Maggio Musicale Fiorentino. Il 3 maggio 2011.

mercoledì 19 gennaio 2011

Salome a Firenze


Tempi di crisi, mini stagioni. Si apre la fiorentina stagione 2010 dalla durata di tre mesi con la Salome di Strauss, opera in un atto dal travolgente carico emotivo andata per la prima volta in scena nel 1905 a Dresda e che torna a Firenze per la sesta volta nella versione tedesca di Lachmann. Robert Carsen firma una regia di un allestimento andato visto già qualche anno fa al Regio di Torino, le cui scene sono firmate da Radu Boruzescu e i costumi da Miruna Boruzescu, che dalla Giudea biblica ci porta a sprofondare nelle viscere di un caveau d’un casinò di Las Vegas, luogo di corruzione e perdizione, attributi che caratterizzano la corte di Erode così come sapientemente ci viene tramandata dalla penna di Oscar Wilde, dalla quale Strauss ne attinge direttamente: momenti erotici, una “pioggia d’oro” che cade dalle cassette di sicurezza, una serie di televisori di telecamere a circuito chiuso riflettono al teatro la loro luce gelida, peccaminosa. A destra una cassaforte tonda che fa da prigione di Giovanni; da essa un fascio di luce alle ammonizioni del Battista di caravaggesca memoria. Buone le voci dal timbro profondo e velato dell’Herodes di Kim Begley al vellutato Jachnaan di Mark S. Doss, dall’Herodias di Irina Mishura alla Salome di Janice Baird che ha in merito anche un’ottima prestazione attoriale. La “danza dei sette veli”, si sa, è sempre il momento più atteso. Salome, da adolescente innamorata si muta in matura meretrice tanto da sfidare la matrigna in bellezza e sfrontatezza, e prima che il “rito” si concluda con uno sguardo di sfida viscerale tra le due donne, il quadro viene rivisitato da Carsen come danza orgiastica senile, con setti vecchi (invece dei veli) che desiderano in modo animalesco le carni della giovane principessa. Il terribile pegno fa tornare coi piedi a terra Erode che in preda all’angoscia di un’imminente punizione divina ordina di uccidere “quella donna”. I conviviali del tetrarca eseguono l’ordine e impugnano una pistola che puntano non contro Salome, ma contro Erodiade: è il momento dello sparo a cui dà voce il forte ultimo accordo dell’orchestra ottimamente diretta dello specialista Ralf Weikert in sostituzione di Paolo Carignani: è la morte in scena, in teatro piomba il buio, la musica si spegne. Alla fine applausi smorzati e cast accolto molto freddamente da un pubblico fiorentino distante e disorientato in una serata tutt’altro che da prima apertasi da un comunicato letto in sala dalle sigle sindacali col quale si è espressa solidarietà al Teatro Carlo Felice di Genova in merito alle gravissime vicende sindacali che lo interessano, ma poco conta, visto che nella serata della diretta su Radio 3 il teatro è quasi venuto giù dai fischi alla regia.
Firenze, Teatro Comunale. Il 7 ottobre 2010.

lunedì 11 ottobre 2010

Addio Stupenda

11 ottobre 2010. Una giornata uggiosa. Una regolare giornata d’autunno come tutte le altre. Questa è stata fino al pomeriggio quando, chi nella sua casa, chi a lavoro, chi in auto, chi con il proprio i-pod, si trova ad ascotare una notizia che come tutte le altre passa con la velocità tipica della cronaca dell’oggi lasciando indifferenti i più, ma non i melomani di certo, gli amanti della Musica, della cultura, del bello, non i più eruditi e informati della scena culturale mondiale. Poche parole bastano a rendere chiara la realtà: un altro mostro sacro ci lascia e questa volta è la volta di quella che più di tutte le altre si è saputa ben guadagnare il titolo di “Stupenda”: Joan Sutherland. Soprano drammatico d’agilità, la Sutherland vantava un repertorio sterminato di ruoli che coprivano tre secoli di Musica trovandosi a suo agio sia in ruoli tragici che in quelli comici: da Hendel a Mozart, da Bellini e Donizetti a Verdi e Wagner, da Cilea a Puccini, passando per Haydn, Bizet, Offenbach, von Weber, Britten, fino a Poulenc. Il decollo della sua carriera è segnato da una storica “Lucia di Lammermoor” di Gaetano Donizetti (tenuta a Londra nel 1959), con la regia di Franco Zeffirelli e la direzione di Tullio Serafin. Di li in poi il successo internazionale è inarrestabile fino al ritiro dalle scene avvenuto nel 1990. Nella mia città, Firenze, in particolare, interpretò presso il Maggio Musicale Fiorentino una “Semiramide” di Gioachino Rossini per tornarvi nel 1968 per un recital di canto. Apprezzata per la sua tecnica vocale di ineguagliabile perfezione e particolarmente amata dal pubblico di ogni dove, ci lascia in questo 2010, un anno quanto mai funesto per la lirica, a Ginevra, assistita dal marito, il direttore d’orchestra Richard Bonynge. Ci restano di lei la sua arte, il suo carisma, la sua forte personalità. Nella Musica e nella memoria continuerà a vivere in eterno in un mondo sempre più povero di tali grandi personalità. Per tutto quello che ci hai dato permettici di dirti “grazie” dal più profondo del nostro cuore. Grazie Dame Joan. Ciao Stupenda…
Firenze, l’11 Ottobre 2010.

mercoledì 29 settembre 2010

Al cantiere del nuovo Teatro del Maggio

“I fiorentini cambiano la città – 100 incontri in 100 luoghi”: con questo slogan il corrente settembre si avvia alla conclusione nella città del Giglio. Un’iniziativa unica in cui i cittadini sono chiamati a raccolta per toccare con mano la Firenze che sta cambiando e che noi tutti vorremmo. Cento i cantieri aperti e altrettanti sono i dibattiti con addetti e responsabili ai lavori in posti nevralgici e di forte identità della città, in posti di incontro sociale, di produzione e di commercio. Io scelgo il sito n. 22, quello del nuovo Parco della Musica e della Cultura di Firenze, nel quale, a partire da dicembre 2011, inizierà a trasferirsi il Maggio Musicale Fiorentino, un’istituzione che dal momento in cui sono venuto in questa città mi sta particolarmente a cuore (e non posso certo mancare a questa occasione). Tra le visite guidate partecipo a quella delle 20,00. All’ingresso del cantiere dai viali ci circonvallazione mi vengono dati giubbino catarifrangente e casco protettivo (per un attimo il pensiero inevitabilmente va alla mia dolce città patria L’Aquila, a tutte le volte che ho indossato caschi simili quando dovevo tornare nella mia casa lesionata, in piana "zona rossa", con i Vigili del Fuoco per recuperare effetti personali e similari). Quando il gruppo visitatori è ben costituito inizia la visita al cantiere che da subito appare in tutta la sua imponenza. Le grandi gru che da qualche mese ormai caratterizzano lo skyline cittadino sono ferme, ma pronte a ripartire la mattina seguente. Il percorso si conclude nel punto in cui sorgerà la torre scenica (prevista di un’altezza pari a 40 metri): da qui la vista spazia in una struttura in cui è già riconoscibile lo scheletro della sala principale (per intenderci, quella in cui vedremo il Ring wagneriano nel 2013): alcuni addetti propongono esaustive spiegazioni e chiarimenti a tutti presenti; anche il sindaco Matteo Renzi si unisce al gruppo per alcuni minuti scambiando pareri con tutti i presenti. Conclusa la visita di quello che sarà il nostro nuovo massimo teatro, di quella che io amo definire la mia nuova seconda casa per la quale devo pagare la tassa dell’Ici (alias abbonamento), nella sala mensa si svolge un incontro pubblico con i responsabili del cantiere e l’equipe che ha vinto l’appalto (ABDR Architetti Associati) al quale ha preso parte anche la neosovrintendente Francesca Colombo. Nel dettaglio vengono illustrate tutte le caratteristiche di questa opera strategica (l’inaugurazione rientra nel calendario ufficiale delle manifestazione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia); al termine, un nutrito dibattito con i cittadini e gli spettatori più fedeli  della fondazione lirico-sinfonica di Firenze conclude un incontro davvero interessante e molto istruttivo (coronato, tra l’altro, anche da un gradito rinfresco con panini al salame, pizzette e bevande… mmmmm…).
Il nuovo parco della Musica e della Cultura è una struttura attesa con forte ardore da parte di tutta la comunità culturale fiorentina (compreso il sottoscritto); in particolare, il maestro Zubin Mehta ha particolarmente a cuore questa causa che segue in modo capillare ogni volta che torna in città. L’attuale struttura del Teatro Comunale, oltre ad essere unanimemente considerata esteticamente brutta, per non dire di peggio, sotto tutti i punti di vista, è ormai inadeguata alle nuove esigenze di allestimento ed è acusticamente insufficiente (e questo è motivo di sofferenza sia per il pubblico che per le masse artistiche). Il nuovo teatro andrà a risolvere tutti questi grandi problemi inserendosi in un contesto di riqualificazione di una parte di città non trascurabile toccando anche il Parco delle Cascine e la Stazione Leopolda. Carta vincente del progetto è il leitmotiv dei piani inclinati: all’esterno, grazie ai quali la struttura si collocherà nell’ambiente dialogando con esso e all’interno, eliminando tutte le superfici verticali, parapetti compresi. La Sala Grande (la prima che sarà completata e che sarà destinata a spettacoli di teatro musicale) avrà una capacità di milleorttocento posti (duecento in meno dell’attuale teatro di Corso Italia, ma meglio distribuiti) e sarà inserita in un grande volume stereometrico inclinato. La Sala Piccola, da mille posti, sarà caratterizzata da una flessibilità d’uso (dai concerti sinfonici e cameristici ai convegni) grazie ad una particolare conformazione che le permetterà di essere sezionata in due settori da cinquecento posti l’uno. In copertura della Sala Grande sarà posizionata una cavea capace di duemilaseicento posti ad integrazione del sistema di piazze, terrazze e belvedere, vera anima del progetto.  Ad oggi si è realizzato il 40% dell’opera e già riconoscibili sono le strutture della platea e del palcoscenico.
A conclusione di questa trattazione mi permetto di avanzare qualche mia personale considerazione. Io sono francamente entusiasta di questo nuovo teatro e non vedo l’ora che arrivi il momento della sua inaugurazione: finalmente anche Firenze avrà un grande teatro degno di una grande città di levatura mondiale come questa (che tra l’altro ha dato i natali anche al “recitar cantando”): finalmente diremo basta ad un’acustica pessima e agli enormi problemi tecnici, finalmente per andare a teatro non dovremo più varcare la dogana del consolato statunitense, finalmente potremo essere orgogliosi di una struttura eccellente e al pari di quelle europee. Ma quando arriverà la sera dell’ultimo spettacolo al Teatro Comunale, alla fine, sicuramente, una lacrima spunterà: è lì che è iniziato il mio amore per il Maggio, lì ho vissuto tante emozioni, lì sono anche accaduti alcuni fatti inaspettatamente strategici (a buon intenditor…). Allo stesso modo, però, quando arriverà il famigerato 21 dicembre 2011 in cui per la prima volta Zubin Mehta leverà la bacchetta sull’orchestra per intonare la monumentale Nona Sinfonia di Beethoven, tutta Firenze felicemente sospirerà e nell’animo penserà “Finalmente!”: pian piano, sera dopo sera, il nuovo teatro lo inizieremo a conoscere e impareremo ad amarlo, inizieremo a viverlo come la nostra nuova casa della cultura, ce lo faremo nostro e inizieremo a tenercelo stretto. Dubbi e paure però non mancano: una volta completata la Sala Grande e fatta l’inaugurazione col botto in un tripudio di scintillio e mondanità con i media che faranno da cassa di risonanza, la Sala Piccola e tutta la struttura restante  saranno completate nei tempi stabiliti o si inizieranno a trascurare tanto che dopo molti anni saranno ancora ad uno stato ben lungi dall’essere agibili? Visti i tempi che corrono, i continui attacchi mortali alla cultura e alla lirica e lo stato non certo brillante della Fondazione del Maggio, uno volta fatto il contenitore a regola d’arte, ci sarà la produzione, un contenuto insomma, che ne sia all’altezza? O, a festa finita, ci ritroveremo davanti ad un’ennesima cattedrale nel deserto? Questi sono i maggiori quesiti che son sicuro non attanagliano solo me. E su tutti, vedendo qual è lo stato attuale della lirica, ora (e sicuramente anche allora), a me (e non solo a me), un punto interrogativo ronza perennemente tra i pensieri come una zanzara: era veramente necessario?
Firenze, Cantiere del Parco della Musica e della Cultura, il 28 settembre 2010.

lunedì 27 settembre 2010

Messa di Gloria di Puccini in Orsanmichele


Domenica 26 settembre Orsanmichele torna a vibrare di nuova grande musica. Appena una settimana è trascorsa dal trionfale concerto del violoncellista Giovanni Sollima, e in questa serata si compie la chiusura dell’undicesima stagione concertistica di Toscana Classica che ha vantato diversi appuntamenti soprattutto cameristici tra Orsanmichele e il cortile del Palazzo del Bargello. La conclusione del ciclo è affidato ad una pagina poco conosciuta di Giacomo Puccini, ma di sicura bellezza: la Messa di Gloria per soli, coro e orchestra. Gli interpreti innanzitutto: l’Orchestra Toscana Classica è supportata dal Coro Caricentro – Cassa di Risparmio di Firenze diretti da Giuseppe Lanzetta. Maestro del coro è Ennio Clari. Fabio Buonocore e Lisandro Guinis sono il tenore e il basso solista. Tecnicamente parlando la migliore dicitura da dare all’opera è quella di “Messa a quattro voci”. Puccini compone la Messa come esercizio per il diploma all'Istituto Musicale Pacini di Lucca dove la esegue per la prima volta il 12 luglio 1880. Tuttavia il “Credo” è già stato composto ed eseguito nel 1878 ed è inizialmente concepito da Puccini come una composizione autonoma. Puccini non pubblica mai il manoscritto completo della Messa e, sebbene è ben accolta all'epoca, non è più eseguita fino al 1952 (prima a Chicago e poi a Napoli). Tuttavia egli riusa alcuni dei temi musicali della Messa in altri lavori, come ad esempio l“Agnus Dei” nell'opera “Manon Lescaut” e il Kyrie  nell’“Edgar”. Alla fine della Seconda guerra mondiale, il sacerdote Dante Del Fiorentino acquista una vecchia copia del manoscritto della Messa dalla famiglia Vandini di Lucca, pensando che fosse la partitura originale. Quest'ultima in realtà è in possesso della famiglia di Puccini ed è data da sua nuora alla Ricordi, casa editrice del musicista. Ne scaturisce una controversia legale che si risolve con la divisione dei diritti d'autore fra la Ricordi e la Mills Music, la casa editrice del manoscritto di Del Fiorentino. Un bel concerto che fa da preludio ad un nuovo anno accademico. Al seguente mattino del 27 settembre 2010 iniziano nuovi corsi, nuovi studi, nuove esperienze, nuove sconfitte e nuove vittorie!!!
Firenze, Orsanmichele. Il 26 settembre 2010.