L'Aquila. Basilica di Collemaggio. Rosone principale. XIII-XIV secolo

lunedì 11 ottobre 2010

Addio Stupenda

11 ottobre 2010. Una giornata uggiosa. Una regolare giornata d’autunno come tutte le altre. Questa è stata fino al pomeriggio quando, chi nella sua casa, chi a lavoro, chi in auto, chi con il proprio i-pod, si trova ad ascotare una notizia che come tutte le altre passa con la velocità tipica della cronaca dell’oggi lasciando indifferenti i più, ma non i melomani di certo, gli amanti della Musica, della cultura, del bello, non i più eruditi e informati della scena culturale mondiale. Poche parole bastano a rendere chiara la realtà: un altro mostro sacro ci lascia e questa volta è la volta di quella che più di tutte le altre si è saputa ben guadagnare il titolo di “Stupenda”: Joan Sutherland. Soprano drammatico d’agilità, la Sutherland vantava un repertorio sterminato di ruoli che coprivano tre secoli di Musica trovandosi a suo agio sia in ruoli tragici che in quelli comici: da Hendel a Mozart, da Bellini e Donizetti a Verdi e Wagner, da Cilea a Puccini, passando per Haydn, Bizet, Offenbach, von Weber, Britten, fino a Poulenc. Il decollo della sua carriera è segnato da una storica “Lucia di Lammermoor” di Gaetano Donizetti (tenuta a Londra nel 1959), con la regia di Franco Zeffirelli e la direzione di Tullio Serafin. Di li in poi il successo internazionale è inarrestabile fino al ritiro dalle scene avvenuto nel 1990. Nella mia città, Firenze, in particolare, interpretò presso il Maggio Musicale Fiorentino una “Semiramide” di Gioachino Rossini per tornarvi nel 1968 per un recital di canto. Apprezzata per la sua tecnica vocale di ineguagliabile perfezione e particolarmente amata dal pubblico di ogni dove, ci lascia in questo 2010, un anno quanto mai funesto per la lirica, a Ginevra, assistita dal marito, il direttore d’orchestra Richard Bonynge. Ci restano di lei la sua arte, il suo carisma, la sua forte personalità. Nella Musica e nella memoria continuerà a vivere in eterno in un mondo sempre più povero di tali grandi personalità. Per tutto quello che ci hai dato permettici di dirti “grazie” dal più profondo del nostro cuore. Grazie Dame Joan. Ciao Stupenda…
Firenze, l’11 Ottobre 2010.

mercoledì 29 settembre 2010

Al cantiere del nuovo Teatro del Maggio

“I fiorentini cambiano la città – 100 incontri in 100 luoghi”: con questo slogan il corrente settembre si avvia alla conclusione nella città del Giglio. Un’iniziativa unica in cui i cittadini sono chiamati a raccolta per toccare con mano la Firenze che sta cambiando e che noi tutti vorremmo. Cento i cantieri aperti e altrettanti sono i dibattiti con addetti e responsabili ai lavori in posti nevralgici e di forte identità della città, in posti di incontro sociale, di produzione e di commercio. Io scelgo il sito n. 22, quello del nuovo Parco della Musica e della Cultura di Firenze, nel quale, a partire da dicembre 2011, inizierà a trasferirsi il Maggio Musicale Fiorentino, un’istituzione che dal momento in cui sono venuto in questa città mi sta particolarmente a cuore (e non posso certo mancare a questa occasione). Tra le visite guidate partecipo a quella delle 20,00. All’ingresso del cantiere dai viali ci circonvallazione mi vengono dati giubbino catarifrangente e casco protettivo (per un attimo il pensiero inevitabilmente va alla mia dolce città patria L’Aquila, a tutte le volte che ho indossato caschi simili quando dovevo tornare nella mia casa lesionata, in piana "zona rossa", con i Vigili del Fuoco per recuperare effetti personali e similari). Quando il gruppo visitatori è ben costituito inizia la visita al cantiere che da subito appare in tutta la sua imponenza. Le grandi gru che da qualche mese ormai caratterizzano lo skyline cittadino sono ferme, ma pronte a ripartire la mattina seguente. Il percorso si conclude nel punto in cui sorgerà la torre scenica (prevista di un’altezza pari a 40 metri): da qui la vista spazia in una struttura in cui è già riconoscibile lo scheletro della sala principale (per intenderci, quella in cui vedremo il Ring wagneriano nel 2013): alcuni addetti propongono esaustive spiegazioni e chiarimenti a tutti presenti; anche il sindaco Matteo Renzi si unisce al gruppo per alcuni minuti scambiando pareri con tutti i presenti. Conclusa la visita di quello che sarà il nostro nuovo massimo teatro, di quella che io amo definire la mia nuova seconda casa per la quale devo pagare la tassa dell’Ici (alias abbonamento), nella sala mensa si svolge un incontro pubblico con i responsabili del cantiere e l’equipe che ha vinto l’appalto (ABDR Architetti Associati) al quale ha preso parte anche la neosovrintendente Francesca Colombo. Nel dettaglio vengono illustrate tutte le caratteristiche di questa opera strategica (l’inaugurazione rientra nel calendario ufficiale delle manifestazione del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia); al termine, un nutrito dibattito con i cittadini e gli spettatori più fedeli  della fondazione lirico-sinfonica di Firenze conclude un incontro davvero interessante e molto istruttivo (coronato, tra l’altro, anche da un gradito rinfresco con panini al salame, pizzette e bevande… mmmmm…).
Il nuovo parco della Musica e della Cultura è una struttura attesa con forte ardore da parte di tutta la comunità culturale fiorentina (compreso il sottoscritto); in particolare, il maestro Zubin Mehta ha particolarmente a cuore questa causa che segue in modo capillare ogni volta che torna in città. L’attuale struttura del Teatro Comunale, oltre ad essere unanimemente considerata esteticamente brutta, per non dire di peggio, sotto tutti i punti di vista, è ormai inadeguata alle nuove esigenze di allestimento ed è acusticamente insufficiente (e questo è motivo di sofferenza sia per il pubblico che per le masse artistiche). Il nuovo teatro andrà a risolvere tutti questi grandi problemi inserendosi in un contesto di riqualificazione di una parte di città non trascurabile toccando anche il Parco delle Cascine e la Stazione Leopolda. Carta vincente del progetto è il leitmotiv dei piani inclinati: all’esterno, grazie ai quali la struttura si collocherà nell’ambiente dialogando con esso e all’interno, eliminando tutte le superfici verticali, parapetti compresi. La Sala Grande (la prima che sarà completata e che sarà destinata a spettacoli di teatro musicale) avrà una capacità di milleorttocento posti (duecento in meno dell’attuale teatro di Corso Italia, ma meglio distribuiti) e sarà inserita in un grande volume stereometrico inclinato. La Sala Piccola, da mille posti, sarà caratterizzata da una flessibilità d’uso (dai concerti sinfonici e cameristici ai convegni) grazie ad una particolare conformazione che le permetterà di essere sezionata in due settori da cinquecento posti l’uno. In copertura della Sala Grande sarà posizionata una cavea capace di duemilaseicento posti ad integrazione del sistema di piazze, terrazze e belvedere, vera anima del progetto.  Ad oggi si è realizzato il 40% dell’opera e già riconoscibili sono le strutture della platea e del palcoscenico.
A conclusione di questa trattazione mi permetto di avanzare qualche mia personale considerazione. Io sono francamente entusiasta di questo nuovo teatro e non vedo l’ora che arrivi il momento della sua inaugurazione: finalmente anche Firenze avrà un grande teatro degno di una grande città di levatura mondiale come questa (che tra l’altro ha dato i natali anche al “recitar cantando”): finalmente diremo basta ad un’acustica pessima e agli enormi problemi tecnici, finalmente per andare a teatro non dovremo più varcare la dogana del consolato statunitense, finalmente potremo essere orgogliosi di una struttura eccellente e al pari di quelle europee. Ma quando arriverà la sera dell’ultimo spettacolo al Teatro Comunale, alla fine, sicuramente, una lacrima spunterà: è lì che è iniziato il mio amore per il Maggio, lì ho vissuto tante emozioni, lì sono anche accaduti alcuni fatti inaspettatamente strategici (a buon intenditor…). Allo stesso modo, però, quando arriverà il famigerato 21 dicembre 2011 in cui per la prima volta Zubin Mehta leverà la bacchetta sull’orchestra per intonare la monumentale Nona Sinfonia di Beethoven, tutta Firenze felicemente sospirerà e nell’animo penserà “Finalmente!”: pian piano, sera dopo sera, il nuovo teatro lo inizieremo a conoscere e impareremo ad amarlo, inizieremo a viverlo come la nostra nuova casa della cultura, ce lo faremo nostro e inizieremo a tenercelo stretto. Dubbi e paure però non mancano: una volta completata la Sala Grande e fatta l’inaugurazione col botto in un tripudio di scintillio e mondanità con i media che faranno da cassa di risonanza, la Sala Piccola e tutta la struttura restante  saranno completate nei tempi stabiliti o si inizieranno a trascurare tanto che dopo molti anni saranno ancora ad uno stato ben lungi dall’essere agibili? Visti i tempi che corrono, i continui attacchi mortali alla cultura e alla lirica e lo stato non certo brillante della Fondazione del Maggio, uno volta fatto il contenitore a regola d’arte, ci sarà la produzione, un contenuto insomma, che ne sia all’altezza? O, a festa finita, ci ritroveremo davanti ad un’ennesima cattedrale nel deserto? Questi sono i maggiori quesiti che son sicuro non attanagliano solo me. E su tutti, vedendo qual è lo stato attuale della lirica, ora (e sicuramente anche allora), a me (e non solo a me), un punto interrogativo ronza perennemente tra i pensieri come una zanzara: era veramente necessario?
Firenze, Cantiere del Parco della Musica e della Cultura, il 28 settembre 2010.

lunedì 27 settembre 2010

Messa di Gloria di Puccini in Orsanmichele


Domenica 26 settembre Orsanmichele torna a vibrare di nuova grande musica. Appena una settimana è trascorsa dal trionfale concerto del violoncellista Giovanni Sollima, e in questa serata si compie la chiusura dell’undicesima stagione concertistica di Toscana Classica che ha vantato diversi appuntamenti soprattutto cameristici tra Orsanmichele e il cortile del Palazzo del Bargello. La conclusione del ciclo è affidato ad una pagina poco conosciuta di Giacomo Puccini, ma di sicura bellezza: la Messa di Gloria per soli, coro e orchestra. Gli interpreti innanzitutto: l’Orchestra Toscana Classica è supportata dal Coro Caricentro – Cassa di Risparmio di Firenze diretti da Giuseppe Lanzetta. Maestro del coro è Ennio Clari. Fabio Buonocore e Lisandro Guinis sono il tenore e il basso solista. Tecnicamente parlando la migliore dicitura da dare all’opera è quella di “Messa a quattro voci”. Puccini compone la Messa come esercizio per il diploma all'Istituto Musicale Pacini di Lucca dove la esegue per la prima volta il 12 luglio 1880. Tuttavia il “Credo” è già stato composto ed eseguito nel 1878 ed è inizialmente concepito da Puccini come una composizione autonoma. Puccini non pubblica mai il manoscritto completo della Messa e, sebbene è ben accolta all'epoca, non è più eseguita fino al 1952 (prima a Chicago e poi a Napoli). Tuttavia egli riusa alcuni dei temi musicali della Messa in altri lavori, come ad esempio l“Agnus Dei” nell'opera “Manon Lescaut” e il Kyrie  nell’“Edgar”. Alla fine della Seconda guerra mondiale, il sacerdote Dante Del Fiorentino acquista una vecchia copia del manoscritto della Messa dalla famiglia Vandini di Lucca, pensando che fosse la partitura originale. Quest'ultima in realtà è in possesso della famiglia di Puccini ed è data da sua nuora alla Ricordi, casa editrice del musicista. Ne scaturisce una controversia legale che si risolve con la divisione dei diritti d'autore fra la Ricordi e la Mills Music, la casa editrice del manoscritto di Del Fiorentino. Un bel concerto che fa da preludio ad un nuovo anno accademico. Al seguente mattino del 27 settembre 2010 iniziano nuovi corsi, nuovi studi, nuove esperienze, nuove sconfitte e nuove vittorie!!!
Firenze, Orsanmichele. Il 26 settembre 2010.

L'Orchestra Regionale Toscana compie 30 anni


L’Orchestra Regionale Toscana festeggia il suo trentesimo anniversario. Dopo una tavola rotonda tenutasi lo scorso 20 settembre, sabato 25 il grande pubblico festeggia il compleanno di una delle formazioni strumentali più in vista nel panorama italiano con una maratona musicale che si inserisce nel fitto calendario di manifestazioni che colmano l’ultimo week-end fiorentino di questo settembre. La Festa inizia alle ore 17,00 per il pubblico delle famiglie e dei bambini con la proiezione di “Omaggio a Rossini” cartone animato firmato da Emanuele Luzzati che insieme a Giulio Gianini hanno messo in scena una serie di piccole storie ispirate alle arie più famose del teatro d’opera rossiniano: “Il Barbiere di Siviglia”, “L’Italiana in Algeri”, “La gazza ladra”; le musiche dal vivo sono dirette da Marcello Bufalini. Dalle ore 19,00 il palcoscenico si anima con i gruppi da camera dell’ORT: I Solisti dell’ORT, OrtEnsemble, Harmoniemusik - I Fiati dell’Ort. Questo segmento della festa che prende il titolo di “Concerti aperitivo” conclude con una performance di Morgan Tortelli alle percussioni. Infine è possibile degustare un drink insieme ai professori d’orchestra. Le musiche in programma (con gli esecutori) sono le seguenti: OrtEnsemble, concertatore Daniele Giorgi. Danze popolari rumene di Bartok; I Solisti dell’Ort, concertatore Andrea Tacchi. Simple Symphony (secondo e terzo movimento) di Britten; I Solisti dell’ORT. Oblivion di Piazzolla; Harmoniemusik - I fiati dell’Ort. Opus number zoo di Berio; Gli Archi dell’Ort (tutti insieme). Pizzicato Polka di Strauss; Morgan Tortelli percussioni. Power Station di Boccadoro. Alle ore 21,00, con Gabriele Ferro sul podio, è il momento dell’orchestra schierata in tutta la sua ampiezza. In programma alcune tra le più belle pagine del repertorio dell’Ort nell’interpretazione di musicisti che in virtù del forte rapporto di amicizia con l’Orchestra della Toscana hanno presenziato e regalato ai programmi: Monica Bacelli, Giorgio Battistelli, Boris Belkin, Pietro de Maria, Andrea Lucchesini. Questo il programma della serata: Liriche di Tosti per la voce di Monica Bacelli e con Pietro De Maria al pianoforte: “Malìa”, “Vorrei”, “Non t’amo più”, “Chanson de l’adieu”; Concerto per due pianoforti e orchestra K 365 di Mozart (secondo movimento) con Andrea Lucchesini e Pietro De Maria; Concerto per due violini e orchestra in re minore di Bach (secondo movimento) con Boris Belkin e Andrea Tacchi, violinisti; Tzigane per violino e orchestra di Ravel con Boris Belkin al violino ed infine la Sinfonia classica di Prokofev, l’opera 25.
Firenze, Teatro Verdi. Il 25 settembre 2010. 

sabato 25 settembre 2010

Giornate Europee del Patrimonio alla Biblioteca Medicea Laurenziana

Il 25 e il 26 settembre 2010 sono le Giornate Europee del Patrimonio in cui tutti i musei e i siti statali rimangono aperti al pubblico ad ingresso gratuito. Io non mi lascio certo sfuggire un’occasione del genere e per questa scelgo di visitare il complesso laurenziano in tutta la sua interezza. Con questo post, però, mi vorrei soffermare nel descrivere il luogo meno facilmente accessibile di tutti questi monumenti (e per certi versi anche il più affascinante): la Biblioteca Medicea Laurenziana.
La Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze è una delle principali raccolte di manoscritti al mondo. Essa custodisce, nei locali disegnati da Michelangelo Buonarroti nel XVI secolo, 68.405 volumi a stampa, 406 incunaboli, 4.058 cinquecentine e, soprattutto, 11.044 pregiatissimi manoscritti, nonché la maggiore collezione italiana di papiri egizi. Vi si accede dai chiostri della basilica di San Lorenzo, da cui il nome “Laurenziana”. “Medicea” deriva invece dal fatto di essere nata dalle collezioni librarie di membri della famiglia Medici. I locali della Biblioteca furono disegnati per il Cardinale Giulio dei Medici, poi Papa Clemente VII da Michelangelo, che tra il 1523 e il 1534 diresse personalmente il cantiere, sia pure con l'interruzione dovuta alla parentesi repubblicana. Alla morte del proprio padre e di Clemente VII, Michelangelo lasciò Firenze, con l'intenzione di non tornarci mai più. La costruzione fu ultimata lentamente negli anni successivi, a partire dal 1548, grazie all'impegno di Cosimo I de' Medici. Michelangelo diresse, malvolentieri, i lavori della biblioteca rimanendo a Roma, mediante l'invio di istruzioni, modelli e disegni ed il tramite di vari artisti fiorentini presenti sul cantiere a vario titolo tra cui il Tribolo, l'Ammannati e Vasari. I lavori terminarono soltanto nel 1571, anno dell'apertura al pubblico; altri lavori furono eseguiti di tempo in tempo fino all'inizio del XX secolo. La biblioteca è una delle maggiori realizzazioni dell'artista fiorentino in campo architettonico, importante anche per le decorazioni e l'arredo interno, giunto in buono stato fino a noi (Michelangelo fornì anche disegni degli stalli di legno per la lettura dei manoscritti). L'opera viene ritenuta una piena espressione dell'atteggiamento manierista che rivendica la libertà linguistica rispetto alla canonizzazione degli ordini classici e delle regole compositive. Nel vestibolo è presente la celebre scala tripartita inizialmente disegnata dal Buonarroti per essere realizzata in legno di noce e che poi Bartolomeo Ammannati eseguì in pietra serena su volontà di Cosimo I. Per la prima volta si può riconoscere un'anticipazione dello stile barocco che di lì a poco avrebbe invaso l'Europa. Se infatti le linee rette delle parti laterali sono pienamente rinascimentali, i monumentali gradini centrali, di forma ellittica come una immaginaria colata di pietra, sono un'invenzione originale di Michelangelo; questa particolare linea curvata fu usata anche nei sepolcri medicei della Sagrestia Nuova e nelle arcate del Ponte Santa Trinita. Il vestibolo è uno spazio quadrato alto e stretto, quasi interamente occupato dalle scale. Le pareti interne sono disegnate come un'architettura esterna con due ordini sovrapposti. Gli elementi architettonici vengono utilizzati per il loro valore plastico, come in una grande scultura, privati della loro logica strutturale e funzionale: per esempio le colonne binate, incassate nella parete, appoggiano solo su mensole e le finestre ad edicola sono solo nicchie cieche. L'intonaco bianco fa risaltare il grigio delle doppie colonne, dei timpani triangolari e delle cornici di pietra serena, riproponendo un accostamento tipico dell'architettura fiorentina fin da Brunelleschi. L'ambiente forse è stato concepito come un preludio oscuro alla luce della Sala di lettura e sulla sua interpretazione sono state spese molte ipotesi, così come sulle nicchie apparentemente destinate ad accogliere sculture, ma rimaste vuote. L'architettura del vestibolo rimase incompleta fino agli inizi del '900, quando furono terminati i lavori della facciata esterna, con l'apertura di false finestre. Sul soffitto fu sistemato un telo dipinto, opera del bolognese Giacomo Lolli (1857-1931), ad imitazione della decorazione lignea di quello della Biblioteca. La sala di lettura, contrasta con le sue proporzioni ampie e distese con il vestibolo. Lo spazio, un lungo e ampio corridoio con banchi lignei, fu quasi interamente disegnata da Michelangelo, compreso il soffitto e gli stessi banchi. Le numerose finestre danno molta luce e movimentano con il loro disegno la prospettiva della sala, grazie alle numerose cornici e decorazioni architettoniche. Le splendide vetrate furono realizzate da maestranze fiamminghe su disegno di Giorgio Vasari e hanno come tema l'araldica medicea circondata da grottesche, armi ed emblemi. Sui banchi i codici venivano conservati orizzontalmente nei ripiani inferiori ed erano liberamente consultabili ma assicurati al bancone per mezzo di solide catene. I manoscritti erano suddivisi a seconda della materia (patristica, astronomia, retorica, filosofia, storia, grammatica, poesia, geografia) e delle tabelle lignee poste sul fianco di ogni pluteo riportavano l'elenco dei libri contenuti. Questa disposizione fu conservata fino ai primi anni del '900, quando si trasferirono i libri negli attuali depositi. Il soffitto in legno di tiglio, fu intagliato attorno al 1550 sulla base dei disegni michelangioleschi. La più rilevante addizione al complesso fu, nel XIX secolo la Tribuna Elci, una rotonda neoclassica con cupoletta costruita per ospitare la collezione del bibliofilo e patrizio fiorentino Angelo Maria D'Elci (Firenze 1754 - Vienna 1824), su progetto dell'architetto Pasquale Poccianti. Lo stesso Poccianti fu autore di alcuni progetti per l'ampliamento della sala di lettura michelangiolesca, che però non furono realizzati. L'aggiunta del nuovo ambiente comportò comunque alcune modifiche alla parete destra della Biblioteca, con due finestre murate e due accecate, mentre una quinta divenne la porta di ingresso. La cupola era originariamente prevista in uno smagliante colore verde, ma in seguito si preferì dare un'impronta più brunelleschiana basata sul contrasto grigio/bianco. Inaugurata nel 1841, fu utilizzata come sala di lettura sino agli anni settanta del Novecento, mentre ora è utilizzata solo per occasioni speciali. La Biblioteca conserva oggi all'incirca 11.000 manoscritti, 2.500 papiri, 566 incunaboli, 1.681 cinquecentine e circa 120.000 edizioni a stampa (dal XVII al XX secolo). Seppure non vastissimo, il patrimonio librario è particolarmente importante in quanto risultato di scelte consapevoli che hanno creato un corpus ragionato, nel quale numerosi pezzi spiccano per antichità, pregio filologico e bellezza. Il nucleo della collezione libraria proviene dalle raccolte private dei Medici, per cui numerosissimi manoscritti furono copiati, spesso di pugno di umanisti del calibro di Pico della Mirandola, Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini, Marsilio Ficino e Niccolò Niccoli. Molti furono sfarzosamente miniati e rilegati. Nel 1757 il canonico Angelo Maria Bandini assunse l'incarico di Bibliotecario e sotto la sua direzione la biblioteca si arricchì ulteriormente. In quel periodo venne compilato un prezioso catalogo a stampa (i cosiddetti plutei, dal nome dei banconi della sala michelangiolesca che allora erano ancora usati per custodire i libri) tuttora indispensabile agli studiosi per il reperimento dei volumi nei depositi. Nel 1771 arrivarono le collezioni della Biblioteca Palatina di Palazzo Pitti, anche se lo spirito razionale del Granduca Pietro Leopoldo fece spostare la maggior parte dei libri a stampa, che costituivano parte integrante della biblioteca Laurenziana, alla Biblioteca Magliabechiana (ora Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze). Nel 1783 181 manoscritti più antichi vennero convogliati qui. Nel 1818 il bibliofilo fiorentino Angelo Maria d'Elci donò la sua preziosa raccolta di prime edizioni di classici latini e greci appositamente rilegate; alla fine dell'Ottocento l'acquisto della biblioteca di Lord Bertram Ashburnham arricchì ulteriormente il patrimonio librario di preziosi codici, molti dei quali di origine italiana, come il trattato di Architettura civile e militare di Francesco di Giorgio Martini, il codice delle Rime del Petrarca fregiato delle armi di Galeazzo Maria Sforza e persino un piccolo e mirabile Libro d'Ore, probabilmente appartenuto alla famiglia di Lorenzo il Magnifico. La raccolta, circa 2.500 papiri, inconsueta presenza per una biblioteca italiana, è il risultato delle campagne di scavo italiane in terra d'Egitto, i cui reperti non caratcei sono nella Sezione Egizia del Museo Archeologico Nazionale di Firenze. La biblioteca è tuttora aperta agli studiosi, che possono ottenere in consultazione, nell'apposita sala (che ha sostituito negli anni '70 la Tribuna Elci), tutti i volumi della collezione, o, nel caso di volumi troppo delicati per essere manipolati, i microfilm. Tra i principali fondi della biblioteca si annoverano:
- “Fondo Mediceo (plutei)”: 3.000 manoscritti circa inventariati nel 1589; di questi almeno 63 sono stati individuati come appartenuti a Cosimo il Vecchio; alla sua morte i figli e i nipoti (fra i quali Lorenzo il Magnifico) incrementarono costantemente le raccolte, con un particolare sforzo nel completare le lacune e rendere esauriente la gamma di argomenti trattati. Il figlio di Lorenzo, Giovanni, salito al soglio pontificio con il nome di Leone X, recuperò la biblioteca familiare confiscata al momento della cacciata e la portò a Roma nel palazzo di famiglia (oggi Palazzo Madama). Sotto il pontificato del cugino Giulio (papa Clemente VII 1523-1534) la raccolta tornò a Firenze e fu iniziata la fabbrica della Biblioteca. Nel frattempo si erano aggiunti al nucleo originario le biblioteche umanistiche di Francesco Sassetti e Francesco Filelfo, i codici dedicati a Leone X e quelli da lui acquistati a Roma, nonché alcuni manoscritti, acquistati dalla Biblioteca del convento domenicano di San Marco;
- “Fondo Mediceo Palatino”: Anna Maria Luisa de' Medici, ultima discendente della famiglia, chiamata anche Elettrice Palatina, trasferì alla nuova dinastia regnante degli Asburgo-Lorena le grandi raccolte artistiche a patto che esse fossero conservate nella capitale con una funzione che oggi definiremmo pubblica. Alla Laurenziana pervenne così il patrimonio della Biblioteca Palatina di Palazzo Pitti, che comprendeva molti volumi frutto delle acquisizioni di quel periodo, come la biblioteca del castello di Lunèville, ad opera del primo granduca Lorena Francesco Stefano; nello stesso fondo sono presenti i manoscritti dalla Magliabechiana, dalla ridivisione operata dal granduca Pietro Leopoldo (che mandò all'altra biblioteca invece le edizioni a stampa della Laurenziana);
- “Raccolte private ed ecclesiastiche”: frutto delle soppressioni degli ordini canonici operate sul finire del Settecento (la biblioteca di Santa Croce, 1767; manoscritti della biblioteca del Palazzo del Capitolo dei Canonici di Santa Maria del Fiore, chiamati Edili, 1778; 6 manoscritti dei Canonici Regolari Lateranensi di Fiesole, 1778; da altre abbazie nel territorio toscano provennero altri codici e la biblioteca che un tempo era nella Villa Medicea di Cafaggiolo, con le carte del Concilio fiorentino del 1439 e le celeberrime Pandette di Giustiniano). Da vendite di famiglie in declino economico pervennero la biblioteca della famiglia Gaddi, ricca di più di mille manoscritti (1775), e la libreria del senatore Carlo Strozzi (1785);
- “Orientali”: numerosi manoscritti in ebraico, persiano, arabo, turco, siriaco e copto, contenenti grammatiche, lessici, testi scritturali, nonché opere di natura scientifica e filosofica, tutti raccolti dal cardinale Ferdinando dei Medici in seguito ad un progetto per sostenere la predicazione del cattolicesimo tra i musulmani e la confutazione delle fedi cristiane di rito orientale (pervenuta a Firenze nel 1684);
- “Conventi Soppressi”: frutto delle soppressioni napoleoniche del 1808, 631 manoscritti greci, latini, orientali, miniati e membranacei provenienti, tra le altre, dalle biblioteche della Badia Fiorentina, di Santa Maria Novella, di Santa Maria degli Angeli, della Santissima Annunziata, di Santo Spirito, Santa Maria del Carmine, Ognissanti e Vallombrosa;
- “San Marco”: per la grande quantità di manoscritti arrivati dal convento di San Marco fu predisposto un fondo apposito. Molti risalgono ai tempi di Cosimo il Vecchio, di provenienza in larga parte dalle raccolte degli umanisti Niccolò Niccoli, Poggio Bracciolini, Lorenzo e Vespasiano da Bisticci e Giorgio Antonio Vespucci, e sono confluiti a più riprese, dai 1571 al 1883;
- “Alfieri”: 39 manoscritti, in parte autografi di Vittorio Alfieri, e altre opere a stampa con carte e documenti, pervenute nel 1824 su lascito degli eredi della collezione, una nobile famiglia di Montpellier in Francia;
- “D'Elci”: 1.213 esemplari di edizioni principi di autori classici greci e latini nonché di edizioni aldine cosiddette dell'ancora secca, pervenne nel 1841 (nonostante il lascito di Angelo Maria d'Elci del 1818) dopo essere stata a Vienna; per questo fondo fu costruita, con un progetto che si protrasse a lungo nel tempo la Sala che ne porta il nome;
 - “Ashburnham”: 2.000 manoscritti circa appartenuti a Lord Bertram, quarto conte di Ashburnham, e comprati dal governo italiano per la Laurenziana nel 1884; si tratta di una raccolta preziosissima di codici medievali e rinascimentali, spesso di origine italiana tra i quali si contano molti esemplari sottratti a suo tempo illegalmente da biblioteche italiane e straniere;
- “Alfieri di Sostegno”: collezione di edizioni elzeviriane (1.278 esemplari) raccolte dal marchese Cesare Alfieri di Sostegno (parente collaterale di Vittorio Alfieri) e donate nel 1920 dai discendenti; sono preziosamente rilegate e su ciascuna è impresso lo stemma e il motto del marchese.
Tra i tesori librari sono da menzionare almeno:
-  Il “Virgilio Laurenziano”, copia delle Egloghe ad opera di Turcio Rufio Aproniano Asterio, che dichiara di avere corretto e punteggiato il testo di Virgilio (poiché i testi scritti su papiro erano privi di punteggiatura), confrontandolo con un altro esemplare, mentre era console nel 494 d.C.;
- Le “Pandectae” di Giustiniano, (VI secolo d.C.) la copia completa più antica esistente, detta “Littera Florentina”, che risale a poco tempo dopo la sua promulgazione; si trovava ad Amalfi dove venne conquistata da Pisa; dopo la conquista della repubblica marinara pisana da parte dei fiorentini arrivò a Palazzo Vecchio, dove fu oggetto di una particolare devozione civile, con una processione annua descritta anche nel Gargantua di François Rabelais;
- La “Bibbia Amiatina” (VII-VIII secolo d.C.), il più antico manoscritto completo della Bibbia con il testo della “Vulgata” di san Girolamo e con rari esempi di miniature italo-sassoni;
- I “Dialoghi platonici in carta bona”, (XV secolo) copia delle opere di Platone donata da Lorenzo il Magnifico a Marsilio Ficino perché la traducesse;
- Il “Codice Squarcialupi”, posseduto (e forse redatto) da Antonio Squarcialupi, unica fonte della musica profana fra Trecento e Quattrocento;
- “Storie” di Francesco Guicciardini con interventi dell'autore;
- Autografo della “Vita scritta da lui medesimo” di Benvenuto Cellini;
- Il “Codice Fiorentino”, l'unico testo bilingue spagnolo e nahuatl della “Historia universal de las cosas de Nueva España”, scritta da fra' Bernardino de Sahagún, riccamente illustrato e di fondamentale importanza per la conoscenza della cultura azteca (decennio del 1570);
- Autografi, fra gli altri, di Petrarca e Boccaccio.
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Il 25 settembre 2010.

Bronzino. Pittore e poeta alla corte dei Medici


“Bronzino. Pittore e poeta alla corte dei Medici”: è questo il titolo dato alla mostra che celebra i cinquecento anno dalla nascita di un grande artista ancora troppo sottovalutato riunendo circa l’80% della sua produzione e presentando alcune opere inedite. Attraverso sette sezioni è possibile ripercorrere tutta la vicenda artistica di Agnolo di Cosimo di Mariano, dall’apprendistato nella bottega del Pontormo al passaggio di consegne nelle mani dell’allievo Allessandro Allori. Il percorso prende avvio con i quattro tondi degli “Evangelisti” eseguiti tra 1525 e 1528 dal Pontormo per la Cappella Capponi di Santa Felicita in Firenze; solo il “San Giovanni” è opera del Bronzino. Nella “Sacra Famiglia con Santa Elisabetta e San Giovannino” (1526-1528) sono ancora evidenti i modelli del maestro di Empoli, soprattutto presenti nella “Salita al Calvario” (1525) eseguita per la Certosa del Galluzzo e qui esposta per rendere un buon paragone tra le opere. La “Madonna col Bambino tra San Girolamo e San Francesco d’Assisi” (1572) subisce varie vicende d’attribuzione essendo prima stato assegnato al Pontormo, poi al Bronzino, ora a Mirabello Cavalori. Nel “San Michele Arcangelo” (1525-1528) i drappeggi rigonfi sono netti riferimenti al Pontormo, mentre il fondo oro è aggiunta tarda, ma nel “Compianto su Cristo morto” (1529) l’arte di Agnolo inizia a farsi indipendente dal maestro prediligendo una particolare pacatezza di composizione e una pittura sensibile alle variazioni luminose sull’epidermide e sui panni. La seconda sezione raccoglie le opere prodotte durante il soggiorno pesarese essendo Firenze assediata. Nella città che darà i natali a Rossini la corte Della Rovere è animato ambiente di artisti, intellettuali e collezionisti. In “Il Pigmalione e Galatea” (1529-1530) si riscontra il ritratto di Francesco Guardi individuato nell’“Alabardiere” del Paul Getty Museum di Los Angeles. “I diecimila Martiri” del Bronzino è ben paragonabile a “I diecimila Martiri” che il Pontormo esegue per l’Ospedale degli Innocenti negli anni dell’Assedio di Firenze e in cui le derivazioni michelangiolesche sono combinate con stilemi d’arte tedesca, mentre “La sfida di Apollo e Marsia” (1530-1532), dall’Hermitage di San Pietroburgo, è stato in passato attribuito al Correggio. Il “Ritratto di Guidobaldo II della Rovere” (1530-1532) è il primo ritratto di rappresentanza dipinto dall’artista: il diciottenne soggetto ha tutti gli attributi di un gran signore come l’iscrizione greca, l’armatura lucente giunta appositamente dalla Lombardia, il cane e la brachetta imbottita secondo la moda dell’epoca. Da un cartone di Michelangelo Buonarroti il Bronzino copia il “Noli me tangere” al suo ritorno da Pesaro. Al periodo delle prime commissioni autonome è da attribuire la “Madonna con Bambino e San Giovannino” (1530) dai caratteristici chiaroscuri e dai colori vivi e contrapposti. Nella “Madonna con Bambino e San Giovannino” (1526-1529) l’artista opera chiari rimandi al Pontormo nell’allungamento delle figure, mentre il preziosismo coloristico e il nitore degli incarnati sono acerbi elementi del Bronzino maturo. La terza sezione tratta dal profondo legame tra il Bronzino e Cosimo I dé Medici che lo elegge quale pittore ufficiale della dinastia fino al 1564 quando subentra il Vasari. Nella sala sono esposti cinque preziosissimi arazzi di una serie ben più vasta voluti dal Granduca Cosimo I per la Sala dé Dugento di Palazzo Vecchio al fine di creare quello sfarzo che è presente nelle altre corti europee: per far questo fa venire dalle Fiandre due arazzieri fondando l’Arazzeria Medicea nel 1545. La serie, composta da sei arazzi su cartoni del Pontormo, uno di Francesco Salviati e ben sedici del Bronzino, copriva tutte le pareti della sala, comprese le finestre, creando un ambiente globale così come si faceva nelle corti del Nord Europa. Parte degli esemplari sono andati al Palazzo del Quirinale a Roma, mentre quelli rimasti a Firenze sono rimasti esposti in loco fino al 1983, anno in cui sono stati sottoposti a laboriosi restauri da parte della Soprintendenza ai Beni Culturali dato il loro avanzato stato di degrado. Essi dunque sono: “Giuseppe riceve Beniamino” (1550-1553), “Giuseppe fugge dalla moglie Putifarre” (1549; è metafora dei Medici cacciati da Firenze e ritornativi da trionfatori), “Giuseppe si fa riconoscere dai suoi fratelli e congeda gli egiziani” (1550-1553), “Incontro con Giacobbe in Egitto” (1550-1553) e “Giacobbe benedice i figli di Giuseppe” (1550-1553; la scena ricorda la tavola del Pontorno per la Camera Borgheresi, oggi a Londra, ma la ricca ambientazione e la gestualità richiamo alla produzione di arazzi di Bruxelles del XVI secolo). I “Dieci ritratti di Medici” (1555-1565) fanno parte di una serie di trenta ritratti, ma le fisionomia sono riprese di personaggi di opere già esistenti. Il “Ritratto di Cosimo I dè Medici” (1560) è opera di bottega e deriva dall’effige di Cosimo quarantaduenne; l’armatura è sostituita da abiti quotidiani avendo orami il Duca già conquistato Siena e tutta la Toscana. Il “Ritratto di Francesco di Cosimo I dé Medici” (1551) ben si affianca al “Ritratto di Maria di Cosimo I dé Medici” (1550-1551) dalla bellezza rimarcata grazie ai preziosi ornamenti. A Baccio Bandinelli si deve il “Busto di Cosimo I dé Medici” (1542-1544) con un’armatura all’antica decorata da una testa di capricorno, suo segno zodiacale d’elezione essendo il segno di Augusto e Carlo V rivelando una volontà autocelebrativa: di qui le conclusione secondo le quali Bandinelli è ritrattista in scultura imperiale antica, mentre il Bronzino in pittura imperiale moderna ispanico-borbonica. Il celebre “Ritratto di Bia di Cosimo I dé Medici” (1542) presenta l’illegittima figlia del Granduca indossare un gamurrino di raso bianco con spillini rigonfi, una collana di perle, una catenella dorata al collo, un medaglione con profilo di Cosimo I, mentre lo sfondo è di un neutro colore di Pietra Blu. Il “Ritratto di Giovinetta con libro (Giulia di Alessandro dé Medici)” (1548-1550) presenta il caratteristico taglio del busto e una frontalità regale. Il tenero “Ritratto di Giovanni di Cosimo I dé Medici” (1545) mostra il paffuto bambino in abito di raso di seta rossa con colletto e polsini in pizzo e una cardellino stretto nella mano sinistra. L’“Allegoria della felicità perduta” (1567-1568) narra del raggiungimento della felicità pubblica attraverso l’esercizio della prudenza e della giustizia. Segue la sala dedicata alla produzione artistica per Eleonora di Toledo, per la quale è stata realizzata la cappella personale in Palazzo Vecchio. Il frammento di “San Cosma” (1543-1545) è esposto per la prima volta al pubblico dal momento del suo ritrovamento dovuto a Philippe Costamagna e con il coevo “San Giovanni Battista” (1543-1545) sono stati donati dal Granduca alla Francia e oggi sostituiti da un’“Annunciazione” insieme al “Compianto su Cristo morto”, replica eseguita dallo stesso Bronzino nel 1553. A proposito del “Ritratto di Cosimo I dé Medici” (1544-1545) Paolo Giovio dice che qui l’artista supera per la prima volta il suo maestro Pontormo: mostra il granduca in tre quarti e questa presente in mostra è una delle due copie conservate agli Uffizi e a Sydney. Il celeberrimo “Ritratto di Eleonora di Toledo con il figlio Giovanni” (1545) è stato eseguito durante un soggiorno nella Villa di Poggio a Caiano. Esprime orgoglio dinastico. L’abito della Granduchessa presenta un motivo a melagrana ed è impreziosito da cordoni che arricciano le maniche, orecchini e pendenti, fili di perle, una cintura terminante in sontuosa nappa, nonché da una rete coprente spalle e capelli: tutti attributi che fanno di lei una vera e propria icona del potere.  Un’interessante sezione è quella che vede la vicenda del Bronzino al fianco della famiglia Panciatichi. Bartolomeo Panciatichi entra nell’Accademia degli Umidi, poi Accademia Fiorentina, come poeta, insieme al Bronzino. In seguito è stato ambasciatore dei Medici a Parigi, poi accusato di luteranesimo ed infine scagionato dallo stesso Cosimo I. Esito di questa vicenda è l’esemplare “Cristo crocifisso” (1540), anche questo per la prima volta esposto dopo il ritrovamento ad opera di Philippe Costamagna, che spicca per il fatto che una cappella di pietra serena in penombra racchiude un corpo di Cristo quasi in avorio; una simile soluzione compositiva è stata adottata nel famoso “Ritratto di Lucrezia Panciatichi” (1541-1545) con nelle mani il Libro d’Ore dal quale è leggibile il Salmo 150. L’alto rango sociale della donna è sottolineato dalla posa, dall’abito e dai gioielli con una cintura di pietre dure montate in oro e perle con rubino al centro di un pendente rotondo. Nella catena è inciso SANS FIN AMOUR DURE SANS (senza fine amore dura senza) in riferimento all’infinita circolarità dell’amore di Dio per gli uomini. Il “Ritratto di Bartolomeo Panciatichi” (1541-1545) mostra sulla desta del soggetto lo stemma della famiglia e uno stendardo con simile stemma su un torrione è presente nella “Sacra famiglia con San Giovannino (Madonna Panciatichi)” (1538-1540) in cui le forme scultoree del Bambino richiamo ad un Cupido dormiente. Bronzino e le arti è il tema di un’altra sezione che descrive l’artista non solo come pittore, ma anche come ottimo poeta tra gli eletti dell’Accademia degli Umidi, all’interno della quale fu particolarmente apprezzato da Benedetto Varchi che nel 1549 pubblica un volume che riuniva, oltre a lettere di Michelangelo, Pontormo, Benvenuto Cellini, anche del Bronzino. Di Pierino da Vinci è il bassorilievo “Pisa Restaurata da Cosimo I dé Medici (1550-1552), in cui il Granduca e la personificazione di Pisa separano in due la composizione dell’opera. A sinistra sono posti i protagonisti della rinascita cittadina, col fiume Arno e un genio della vittoria che giunge offrendo la corona ducale, mentre sulla destra sono i vizi in fuga. In due vetrine sono collocate cinque opere letterarie: “Delle Rime Libro Primo” (1566), “Le Rime in Buria” (1572), “Il Rivaggiuolo” (1572), manoscritti del Bronzino, mentre “Disputa della maggioranza dell’arti” (1549) e “Sonetti spirituali” (1573), sono due trattati che discutono sul paragone tra scultura e pittura: siamo di fronte alla prima inchiesta pubblica stampata dedicata ai temi figurativi. Il “Ritratto allegorico di Dante” (1532-1533) è eseguito per Bartolomeo Bettini dopo il soggiorno pesarese insieme ad altri due ritratti allegorici di Petrarca e Boccaccio di cui solo questo è giunto fino a noi. Il sommo poeta stringe una Commedia aperta al Canto XXV del Paradiso (nel quale esprime il desiderio di tornare dall’esilio, tema che toccava anche Cellini e Michelangelo, impegnati alla difesa della Repubblica); il coevo “Ritratto allegorico di Dante” (1541) è replica di bottega: in questa tavola ci vengono dati quei particolari che nell’originale sono consunti come la scrittura sul libro o alcuni tratti di paesaggio. “Venere e Amore” (1532-1535) è opera del Pontormo, da un cartone di Michelangelo. Bartolomeo Battini (repubblicano) commissiona a Michelangelo il cartone che viene sequestrato dagli emissari del Duca Alessandro dé Medici per “far del male a Bettino”. Il “Ritratto di Laura Battiferri” (1555-1560) propone la vedova poetessa di Urbino, che andrà sposa a Bartolomeo Ammanati entrando nell’Accademia Fiorentina, con in mano la prima edizione tascabile delle “Rime” di Petrarca (pubblicata a Venezia nel 1511) e l’essere ritratta di profilo rimanda all’effige dantesca. Di Bartolomeo Ammanati è “Leda e il cigno”, scultura del quarto decennio del XVI secolo che propone una trasposizione fedele dell’omonima opera pittorica di Michelangelo andata perduta. Del 1527-1528 è il “Ritratto di Lorenzo Lenzi”, filorepubblicano, dodicenne. Sul libro aperto si legge il sonetto CXLVI del Canzoniere di Petrarca e l’incipit di “Famose frondi” che Benedetto Varchi gli dedicò invaghendosi di lui: conosciuti nel 1527 la loro amicizia durò a lungo. Gli occhi sgranati rivelano un’espressione intensa e gli elementi fisionomici attentamente indagati svelano la lucida adesione del pittore alla realtà naturale. “Venere, Amore e Satiro” (1553-1555) è una delle tre allegorie col tema della passione prodotte dall’autore e “Venere, Amore e Gelosia (o Invidia)” (1550) presenta la Dea volgere verso di sé il dardo di Cupido tenuto sotto i genitali del figlio. Indagini riflettografiche hanno messo in luce, nel disegno preparatorio, la presenza di un satiro che nella redazione finale viene in basso ridotto a maschera, fatto però di carne viva. “Gaminede e l’aquila” (1548-1550) è di Benvenuto Cellini. Cosimo I aveva ricevuto in dono da Stefano Colonna un frammento marmoreo artistico e Cellini, in presenza dell’odiato Baccio Bandinelli, si propone al Duca di completarlo: è la prima volta che l’orafo affronta la scultura lapidea. Il “Ritratto del Nano Morgante” (ante 153), in fronte e retro, propone non solo due vedute del nano, ma anche lo scorrere del tempo: sul fronte c’è l’inizio di una caccia, sul retro la sua fine. La “Dea della Natura” (1528), altra scultura, è di Niccolo Tribolo che si collega al processo generativo che trae origine dall’acqua combinata col calore del sole generante la vita: ciò giustifica la presenza dei sessi maschile e femminile e degli animali. Ancora di Pierino da Vinci è “Dioniso e Ampelo” (1548-1550). La scultura è costruita intorno ad un frammento antico. Ampelo e la maschera appesa al tronco suggeriscono dipendenza da elaborazioni michelangiolesche del Tribolo, mentre la mano di Pierino è da rintracciare nella grazia femminea delle figure. La sezione dei temi sacri espone capolavori che sono uno specchio dei mutamenti religiosi dell’epoca che oscilla tra idee filoriformate a quelle ferree tridentine. Il “Sant’Andrea” (1556) e il “San Bartolomeo” (1556) sono due tavole tagliate facenti parte di una pala, andata frammentata, per l’altare delle Grazie del Duomo di Pisa; nel “San Bartolomeo”, in particolare, il modo in cui è trattata la figura del Santo attesta l’interesse del Bronzino per il dibattito sulla rappresentazione dell’anatomia umana. Il “Cristo portacroce” (1555-1560) è stato solo di recente attribuito al Bronzino da Philippe Costamagna e Carlo Falciani ed è per la prima volta esposto in pubblico: era forse parte di un apparato funerario per le esequie di un importante fiorentino. Le piccole dimensioni del “Compianto su Cristo morto” (1568-1569) suggeriscono l’appartenenza al Granduca Cosimo I che le apprezzava particolarmente. Gesti enfatici ed espressioni dolorose sono tipiche del messaggio controriformato. Al gioco di sguardi si aggiunge la gamma cromatica intensa e brillante che raggiunge effetti di traslucido grazie al supporto metallico. “San Giovanni Battista (Ritratto di Giovanni di Cosimo I dé Medici ?)” (1560-1561), mostra nei panni del Santo Giovanni dé Medici, che era stato avviato alla carriera ecclesiatica, ma muore di malaria a soli diciannove anni, quando era già stato creato Cardinale. L’evocazione dei torsi ellenistici e la nudità eroica classica accentuano la sensibilità del nudo a scapito della dimensione mistica del soggetto. La “Pietà” (1569) è stata commissionata da Giovanni Battista Della Fonte per la sua sepoltura in Santa Croce e presenta una struttura anatomica che guarda all’ultimo Michelangelo e al Pontormo. L’imponente “Resurrezione”(1552) è stata criticata dagli intellettuali controriformati per la presenza di nudi giudicati lascivi, in particolare l’angelo a sinistra. Da Vienna proviene la “Sacra famiglia con Sant’Anna e San Giovannino” (1545-1550) che propone Maria con in mano il libro di Isaia (scritto in ebraico). Dietro la testa c’è una villa la cui identificazione sarebbe risolutiva per l’attribuzione dell’opera; da Parigi è invece la “Sacra famiglia con Sant’Anna e San Giovannino” (1550-1560) che ne è replica. Il disegno sotto lo strato pittorico della seconda versione confermerebbe questo dato per il semplice fatto che nell’originale non c’è. Il cielo diventa sereno, mentre sparisce il titolo dalla copertina del libro che ha in mano Maria. L’“Adorazione dei pastori” (1539-1540) presenta il bambino posato su un frammento architettonico; la torsione del pastore ha come modello il Torso del Belvedere (ai Musei Vaticani) e Giuseppe è ispirato all’Isaia affrescato da Michelangelo nella Cappella Sistina. L’accuratezza dei lineamenti del “San Sebastiano” (1532-1535) lo paragonano a un ritratto e la nudità rimanda agli stilemi ellenistici: ne consegue una fascinazione erotica d’un santo intercessore. Nutrita è la sezione dei ritratti, grazie ai quali il Bronzino è celebrato dal Vasari come il più grande ritrattista, fissando nelle tele l’immagine del potere e, allo stesso tempo, la rappresentazione di un’epoca. Nel “Ritratto di Luca Martini” (1554-1556) il soggetto ha in mano una carta del territorio pisano. Il “Ritratto di Andrea Doria nella veste di Nettuno” (1545-1546) è un nudo attaccato all’albero maestro d’una nave coi genitali nascosti  dalla vela. In origine il ritrattato avevano in mano un remo che è stato poi trasformato nell’attuale tridente della divinità marina. Il “Ritratto di giovane con libro” (1534-1538) presenta un disegno preparatore in cui la testa è molto più piccola e meno idealizzata della redazione finale. La posa disinvolta richiama all’“Alabardiere” del Pontormo. Il giovane indossa un attillato farsetto nero con maniche voluminose, spacchi laterali, cintura blu e bel cappello: è un elegantissimo sconosciuto. Il “Ritratto di Donna (Figlia di Matteo Sofferoni?)” (1530-1532) ha abbigliamento accurato, ma non appariscente: tra i gioielli spicca solo un anello all’indice sinistro, mentre gli attributi tipici della dame mancano tutti. Il “Ritratto di dama con cagnolino” (1530-1532) è già stato attribuito al Pontormo ed appartiene, invece, alla seconda parte del periodo pesarese del Bronzino. La fedeltà coniugale è rappresentata dal cane, quella religiosa dal Rosario terminante in nappa e l’amore per la poesia è testimoniato dai volumi posati sulla mensola. L’abito è rigonfio, l’acconciatura accurata e la catena al collo è di sicura preziosità. Nel “Ritratto di giovane con liuto” (1532-1534), dello strumento tenuto in mano è visibile solo il cavigliere. Sul tavolo c’è una statuetta-calamaio in cui una bagnante sta per intingere il piede nell’inchiostro. Il ritratto si identifica con il poeta e musicista Giovanni Battista Strozzi. La posa, con il suo improvviso volgere lo sguardo verso fuori campo, rimanda alla statua di Giuliano dé Medici di Michelangelo nella Sacrestia Nuova in San Lorenzo. Il “Ritratto di dama (Casandra Bandini?)” (1550-1555) è evidente per i tessuti:  dalle garze di seta sul fondo al ricco damasco di seta rossa della zimarra di lei con velluti, bottoni e pennacchi di fili di seta. Il “Ritratto di uomo (Pietrantonio Bandini?)” (1550-1555) presenta un ampio damasco nero su casacca di rosso intenso con, alle spalle del soggetto, una statuetta di Venere pudica. L’ultima sezione espone opere scelte di Alessandro Allori, allievo prediletto che prende le redini dell’arte del maestro all’avvento della sua morte avvenuta nel 1572. Allo stile del Bronzino aggiunge una forte disposizione sentimentale e un naturalismo sempre più presente. Del Bronzino è la “Sacra famiglia con San Giovannino” (1555-1559), mentre la mano dell’Allori è riconoscibile là dove la pittura diventa più fredda e ferma. Il “Cristo crocifisso tra la Madonna e San Giovanni Battista” (1550-1555) è la prima opera autonoma dell’Allori dal Bronzino, ma i riferimenti al maestro, a Michelangelo e allo studio dell’anatomia sono molto palesi. Il “Ritratto di Ortensia dé Bardi” (1559) è stato già attribuito al Bronzino, ora all’Allori. Sul tavolo si nota un piccola replica della Vita contemplativa di Michelangelo posta sul monumento funebre di Giulio II dé Medici nella Sacrestia Nuova in San Lorenzo. La grande mostra è chiusa dalla “Maddalena penitente” (1602), opera matura dell’Allori, in cui l’attenzione ai volumi fisionomici della natura del Bronzino entra nel nuovo secolo per mano del suo allievo che la unisce ad una sensibilità controriformata. La mostra è in Palazzo Strozzi dal 24 settembre 2010 al 23 gennaio 2011.
Firenze, Palazzo Strozzi. Il 24 settembre 2010.