L'Aquila. Basilica di Collemaggio. Rosone principale. XIII-XIV secolo

sabato 18 settembre 2010

Il Vespro della Beata Vergine di Claudio Monteverdi

Nel settembre del 1610 i torchi veneziani di Ricciardo Amadino erano impegnati nella stampa della più nota tra le opere sacre del «maestro della musica del Serenissimo Duca di Mantova» Claudio Monteverdi. Il frontispizio ne reca il lungo ed articolato titolo: “Sanctissimae Virgini Missa senis vocibus ad ecclesiarum choros ac Vesperae pluribus decantanda cum nunnullis sacris concentibus ad sacella sive principum cubicula accomodata”. Ne fanno parte due distinte ma complementari composizioni: la “Missa da cappella a sei voci, fatta sopra il mottetto In illo tempore del Gomberti” (cioè del fiammingo Nicolas Gombert) ed il “Vespro della Beata Vergine da concerto, composto sopra canti fermi”. Monteverdi ne firmò la dedica (da Venezia, il primo giorno di settembre di quell’anno) al papa Paolo V. Sappiamo che più tardi Monteverdi stesso si recò a Roma e in quell’occasione dovette farne omaggio allo stesso pontefice con la speranza di ricavarne un duplice vantaggio: l’ammissione gratuita del figlio Francesco presso il Seminario romano e un nuovo posto di lavoro per sé, meno faticoso ed economicamente più gratificante. Cocente, infatti, bruciava ancora la delusione provata due anni prima, quando il tanto desiderato e più lieve incarico di maestro della cappella ducale di Santa Barbara di Mantova, resosi vacante per la malattia di Giovanni Giacomo Gastoldi, era stato assegnato ad oscuri mestieranti. Il Vespro monteverdiano è forse il più dibattuto tra i capolavori della musica sacra prebachiana, tanto da costituire ancor’oggi oggetto di studi e ricerche che tentano di rispondere agli importanti quesiti che esso pone: Monteverdi concepì questo monumento della musica sacra come un corpus liturgicamente unitario? Fu esso composto per una particolare occasione? Gli studi più recenti propendono decisamente a dare risposta affermativa alla prima domanda. Il Vespro monteverdiano non è una silloge di elementi eterogenei; al contrario esso offre, nella loro grandiosa veste musicale, i brani richiesti dal servizio liturgico vesperale nelle solenni celebrazioni mariane – il responsorio (“Domine, ad adiuvandum”), i cinque salmi (“Dixit Dominus”, “Laudate, pueri”, “Laetatus sum”, “Nisi Dominus” e “Lauda, Ierusalem”), l’inno “Ave maris stella” ed il Magnificat – nonché i “sacri concerti, convenienti tanto alle cappelle quanto alle camere principesche” (“Nigra sum”, “Pulchra es”, “Duo seraphim”, “Audi, caelum” e la “Sonata sopra Sancta Maria ora pro nobis”) cui si accenna nel frontispizio dell’opera. Questi, che tanto hanno fatto discutere in passato, non sono altro che mottetti funzionanti come liberi sostituti della ripetizione delle antifone da effettuare dopo i salmi. I loro testi, infatti, ben si confanno ad una celebrazione che segua il “Comune delle feste della Beata Maria Vergine”, eccezion fatta per il “Duo seraphim”, la cui presenza è spiegabile con l’ipotesi che il Vespro monteverdiano sia stato composto per una solenne celebrazione in onore di Santa Barbara, titolare della basilica ducale, che proprio per la sua incrollabile fede nel mistero trinitario cui allude il testo del mottetto fu sottoposta al martirio. L’uso di brani vocali liberamente impiegati come sostituti d’antifona è attestato nelle coeve disposizioni liturgiche, nei trattati (come “L’organo suonarino” di Adriano Banchieri, Venezia, 1605-1611 e l’“Annuale” di Giovanni Battista Fasolo, Venezia, 1645) e in alcune raccolte di musica sacra (quali le “Antiphonae, seu sacrae cantiones” di Giovanni Francesco Anerio, Roma, 1613 ed i “Salmi della Madonna” di Paolo Agostini, Roma, 1619). Basati sul medesimo cantus firmus gregoriano, i due Magnificat che chiudono il Vespro monteverdiano condividono la stessa sostanza musicale ma distribuita su due differenti tipi di organico: voci concertate con gli strumenti il primo e con il solo basso continuo il secondo. La parallela corrispondenza tra le sezioni del primo e quelle del secondo Magnificat si annulla soltanto alla fine; divergono infatti le rispettive dossologie: lo stupefacente “Gloria” per due tenori in eco sullo sfondo del cantus firmus sostenuto dal canto è rimpiazzato nel secondo Magnificat dalla deflagrazione di un fittissimo canone affidato a tutte e sei le voci. La mancanza dei colori strumentali di quest’ultima è largamente compensata dalle lussureggianti e virtuosistiche fioriture delle voci (come nell’”Et misericordia”), chiamate talvolta a supplire il ruolo svolto da violini e cornetti nella prima versione (confronta le rispettive sezioni del “Deposuit”). La presenza dei due Magnificat consente di differenziare le celebrazioni dei primi vespri (ossia della vigilia) da quella dei secondi ed offre altresì l’alternativa di un’esecuzione dell’intero Vespro basata sulle voci (solisti e coro) accompagnate soltanto dall’organo, rinunciando agli strumenti ad libitum previsti nel primo salmo e nell’inno, nonché al grandioso e riccamente concertato responsorio monteverdiano. Il mistero della genesi del Vespro monteverdiano potrebbe essere spiegato in questo modo: composto per una speciale occasione, esso fu poi pubblicato dall’autore in una forma tale da poter essere utile nella gran parte delle feste e commemorazioni mariane, numerosissime proprio in quegli anni sull’onda della devozione di stampo controriformista. La riforma del Breviario dovuta al papa Pio V nel 1568, e perfezionata trentaquattro anni dopo da Clemente VIII, cercava di ottenere la massima uniformità possibile nei più importanti riti della celebrazione delle ore canoniche. Anche Paolo V, il papa dedicatario del Vespro, fu attivo propugnatore delle idee controriformiste, impegnato nello sforzo di far rispettare l’ortodossia liturgica. Più difficile è spiegare l’enorme disparità che corre tra la Missa, arcaica nella tecnica compositiva (che deriva il materiale costruttivo da dieci soggetti del mottetto di Gombert) e nella compagine (sei voci accompagnate soltanto dall’organo), e i brani del Vespro, smaglianti esempi di concerto barocco di voci e strumenti, per nulla menomati nel loro splendore dall’uso del cantus firmus nei cinque salmi, nell’inno, nei due Magnificat e nella stupefacente Sonata sopra Sancta Maria. È certo che un forte legame avvince il Vespro a L’Orfeo, ascrivendolo pertanto al fervente periodo delle rappresentazioni operistiche mantovane del 1607-1608: lo si percepisce chiaramente all’inizio, quando risuonano le prime note del responsorio (“Domine, ad adiuvandum”) che sono le stesse della “Toccata”, la fanfara gonzaghesca, che apre l’opera monteverdiana. Ma anche altre pagine del Vespro richiamano alla memoria quel melodramma, come il mottetto “Audi, caelum” e soprattutto il “Deposuit” del primo Magnificat che appare in guisa di sacro travestimento del lamento di Orfeo “Possente spirto e formidabil nume” (Atto III): entrambi sono infatti fortemente caratterizzati dalle risposte in eco degli strumenti ricamate sul dispiegarsi della voce sola. Pur basandosi sui relativi cantus firmi, il responsorio, i cinque salmi, i due Magnificat e l’inno presentano una fino ad allora inaudita varietà formale e tutte le tecniche compositive vi sono impiegate: dal falso bordone – ossia la declamazione intonata sulle note degli accordi – alla policoralità, dalla struttura strofica alla variazione su basso ostinato, dallo stile monodico al contrappunto canonico; e tutto in una infinita serie di combinazioni. Ogni brano viene così ad assumere una propria individualità: il “Dixit Dominus”, ad esempio, presenta una struttura simmetrica in cui, incorniciati dai grandiosi interventi corali dell’inizio e della dossologia, si snodano tre episodi di identica articolazione formale, mentre il “Laetatus sum” è una grande variazione strofica su un basso ripetuto cinque volte ed il “Nisi Dominus” appartiene alla categoria dei salmi spezzati bicorali alla maniera di Adriano di Willaert, ma con ripetizioni dello stesso versetto il cui inizio si sovrappone alla fine della prima enunciazione. Continui, inoltre, sono i mutamenti d’organico, anche all’interno di uno stesso brano, che spaziano dal doppio coro ai fioritissimi duetti e trii vocali, e cangiante è il rilievo dato alle melodie liturgiche, talora sommerse nell’intricato e denso tessuto polifonico, talaltra usate come sfondo di un tenue e fiorito duetto. Nel “Domine ad adiuvandum”, nel “Dixit Dominus” e nel primo Magnificat alla varietà delle voci si aggiungono gli strumenti: questi sono addirittura protagonisti nella “Sonata sopra Sancta Maria” dove otto parti strumentali (violini, cornetti tromboni e viole) accompagnano le iterazione litaniche affidate alla sola voce del soprano. Con la sola eccezione del sopracitato “Duo Seraphim”, nei rimanenti quattro concerti, nella “Sonata sopra Sancta Maria ora pro nobis” e nell’inno sono posti in musica testi mariani in buona parte tratti dal “Canticum Canticorum”, una ricca fonte cui attinsero volentieri i compositori di quel tempo, a cominciare dal “Quarto libro dei mottetti a cinque voci” (Venezia, 1584) di Giovanni Pierluigi da Palestrina, su di esso interamente basato. I testi di “Nigra sum” e “Pulchra es” del Vespro monteverdiano combinano alcune antifone (rispettivamente la III e la IV antifona dei secondi vespri del Comune delle feste della Beata Maria Vergine il primo, e la V antifona dei secondi vespri della festa dell’Assunzione il secondo) con brani ricavati dal Canticum; alcuni versi di quest’ultimo sono anche inglobati nel testo di “Audi, caelum”. In tutti prevale lo stile monodico, sempre ricco di agili fioriture che in alcuni momenti diventano veri e propri virtuosismi canori paragonabili alle più spericolate pagine di “L’Orfeo”. Ciascuno di essi presenta un diverso organico: voce sola, duetto e trio i primi tre mottetti; di nuovo voce sola ma con raddoppio in eco e sezione finale a sei nel bellissimo “Audi, caelum”. A otto voci divise in due cori sono la prima e l’ultima strofa dell’inno “Ave maris stella”, mentre nelle sezioni intermedie si alternano primo e secondo coro, i due Soprani delle rispettive compagini ed il tenore; l’articolazione strofica è sottolineata dai ritornelli strumentali che vi sono inframmezzati. Il rapporto tra gli strumenti e la voce è addirittura ribaltato, come si è già visto, nella “Sonata sopra Sancta Maria». Stile moderno ed antiche risorse della polifonia si amalgamano armoniosamente nel Vespro monteverdiano che rappresenta un limpidissimo esempio di integrazione fra tradizione ed innovazione. I modelli, ascrivibili tanto alla prassi compositiva di tradizione palestriniana quanto al concerto sacro dei Gabrieli, sono assimilati da Monteverdi e fusi nel suo personalissimo stile: la “seconda pratica” intesa come capacità della musica, sia polifonica che monodica, di esprimere umani e divini “affetti”. La musica monteverdiana riveste la parola sottolineandone ed amplificandone i contenuti: più che ai facili ancorché obbligati espedienti della “pittura sonora” (uno di questi è udibile nell’impennarsi e successivo sprofondare delle voci dei due bassi in coincidenza con “Qui in altis habitat” e di “et in terra” nel “Laudate pueri”) Monteverdi preferisce ricorrere a raffinati strumenti espressivi, come nel “Duo Seraphim”, dove l’ingresso del terzo tenore sulle parole “Tres sunt qui testimonium dant in caelo” sottolinea il riferimento trinitario e soprattutto quando, poco più avanti nello stesso brano, viene ingegnosamente evidenziato il contrapposto fra “et hi tres”, intonato sulla triade perfetta di Fa maggiore, e “unum sunt”, cantato dalle tre voci all’unisono. Possiamo dunque comprendere come il Vespro abbia potuto esercitare sui compositori delle successive generazioni enorme fascino ed influenza, rinnovati, trentun’anni più tardi, dalla monumentale “Selva morale e spirituale”. Stupore ed ammirazione dovettero anche provare i primi esecutori ed ascoltatori di quello che il cantore e vice maestro Bassano Cassola, in una lettera a Ferdinando Gonzaga (26 luglio 1610), definiva quale “il Vespero della Madonna, con varie e diverse maniere d’invenzioni e d’armonia, e tutte sopra il canto fermo”.

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